Gli effetti di Forum sulle vecchie
Ride verde chi ride ultimo – Cosa significa davvero vincere una causa per il clima?
Una settimana esatta fa una squadra di vecchiette svizzere ha vinto, una di giovani portoghesi ha perso. Non sto parlando delle qualificazioni di una nuova, perversa disciplina olimpica di Parigi 2024, come la break dance, ma qualcosa di molto più importante: le climate litigation, o cause per il clima. Anche se provaci tu a ballare a ritmo di riscaldamento globale.
Ne avete sicuramente sentito parlare. Martedì scorso, il 9 aprile, la Corte Europea dei Diritti Umani si è espressa su due cause epocali. La prima pareva vero materiale da cinema: un manipolo di sei giovani portoghesi decide di portare 33 Stati europei in un’aula di tribunale per fare i conti con le responsabilità sulle emissioni di gas serra. Tipo in House Arrest, quel film del ’96 in cui un gruppo di ragazzini intrappola i rispettivi genitori in taverna per obbligarli a risolvere i propri problemi di litigi e divorzi imminenti — spoiler: non si conclude come alla Fiera dello Scambismo di Porto Empedocle del 2019 (chi c’era, sa). La causa dei portoghesi è finita però prima ancora di iniziare, nel senso che la corte non ha ammesso il caso per un deficit di giurisdizione extraterritoriale. Nella decisione finale presentata ai sei giovani si legge:
“Chiedete a papà, io non voglio saperne niente.”
La seconda causa ha ricordato, più che il cinema, una puntata di Forum. Un agguerritissimo gruppo di quasi 2500 signore di età media 73 ha trascinato in aula il proprio governo. Da brave vecchiette svizzere, le KlimaSeniorinnen si sono rivelate scaltre come un conto bancario segreto e fuori di testa come orologi a cucù, con un buco al posto del cuore come il più veterano dei groviera. E proprio per questo hanno vinto: la Svizzera non garantisce alle signore un’efficace protezione dai severi effetti del cambiamento climatico, dunque viola il loro diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, ossia del diritto alla salute, al benessere e alla qualità della vita sancito dall’Articolo 8 della Convenzione Europea sui diritti umani. La stessa violazione subita dalle anziane qui in Italia ora che Amadeus se ne va da Rai 1.
(lui NON è una delle KlimaSeniorinnen)
Il verdetto contro il governo elvetico è stato LA notizia di questi ultimi sette giorni perché racconta una storia più ampia. Fare causa contro chi non agisce per contrastare la crisi climatica sta diventando sempre più l’asso nella manica di noi cittadini. O il Settebello nella panciera, nel caso delle svizzere. Me lo hanno confermato nel corso di una chiacchierata Antonio Tricarico e Marta Francescangeli di ReCommon, l’organizzazione che insieme a Greenpeace è impegnata nella causa climatica contro Eni, dal titolo La Giusta Causa. La causa invoca la stessa accusa di violazione dell’Articolo 8 della carta dei diritti umani riconosciuta nel caso delle KlimaSeniorinnen, ma con meno dentiere coinvolte. Marta e Antonio mi hanno spiegato che una premessa fondamentale per comprendere come funzionano le climate litigation è che sono concepite con un obiettivo ben chiaro: “Fare causa per il clima vuol dire chiedere cambiamenti delle azioni e delle decisioni quando l’attore privato o pubblico portato in tribunale non sta facendo abbastanza per allinearsi agli obblighi nazionali e internazionali per il contrasto della crisi climatica.” Non si tratta di portare l’ex moglie in tribunale per spillarle gli alimenti, o chiedere risarcimenti dopo un incidente come quel mio zio che si fa tamponare agli incroci ogni due o tre mesi; si tratta di correggere comportamenti.
Abbastanza, nelle parole di Antonio, si riferisce a quanto servirebbe per instradare l’azienda o il Paese verso il rispetto degli impegni presi a livello globale. Come l’Accordo di Parigi, l’equivalente diplomatico della proverbiale bici che hai voluto e mo’ pedali. Questo aspetto è il motivo per cui una causa climatica necessita di parecchie competenze tecnico-scientifiche. Il tribunale deve dotarsi delle valutazioni che lo aiutino a capire se i piani strategici dell’imputato siano sufficienti. Antonio si è detto ottimista sul fatto che è sempre più facile che uno scienziato si proponga come valutatore esperto. La scienza “non vede più le climate litigation come strumento residuale” ma anzi le ritiene una via importante per riaffermare gli allarmi che suona da sempre. Infatti non vi dico con che acidità vengono redatti i pareri tecnici… Lo preoccupa però l’evoluzione del negazionismo nelle sue forme di inattivismo e climate delay. “Oggi sono pochi i soggetti che negano la crisi climatica di per sé” mi ha detto, ma le strategie presentate per contrastarla sono piene di soluzioni poco (o pochissimo) efficaci. Questo rende lo scontro giuridico più delicato, sottile e quindi incerto. Per esempio, Eni può controbiettare alle accuse mosse da ReCommon e Greenpeace sostenendo che il suo piano industriale per i prossimi anni sia coerente con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Sta ai suoi oppositori dimostrare che, essendo esso basato prevalentemente su tecnologie ambigue come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, avendo una grossa dipendenza dalla compensazione carbonica e non proponendo veri tagli alle emissioni, equivalga a una promessa vana e dunque incoerente. Insomma, è una partita ad alto tasso di tecnicismi e per un giudice diventa come se gli chiedessero di sedare un contenzioso ad un torneo di Magic The Gathering nella fumetteria di quartiere.
Che poi, come si fa valere concretamente una condanna da parte del tribunale? “Per un soggetto privato come un’azienda si tratta di possibilità più concrete, come multe o ingiunzioni a bloccare progetti in corso” mi ha spiegato ReCommon. “Per un soggetto pubblico è diverso, non esiste uno Stato parallelo che potrebbe eseguire il controllo su di un Paese condannato.” Si può provare a dirlo alla mamma dei vari capi di governo, ma spesso la risposta è “so’ criature...” Quindi per far valere una condanna sul Paese si fa leva sulla coerenza domestica e la reputazione internazionale. Quando l’Olanda ha perso lo storico caso Urgenda, si è esposta a critiche tanto da parte dell’elettorato nazionale quanto dai tavoli di lavoro diplomatici, essendo un Paese storicamente impegnato sulle tematiche ambientali. La posta in gioco è quindi lo smalto internazionale, la faccia politica, il buongusto morale e ammetto che questo mi ha totalmente scoraggiato. Cosa ha da perdere un Paese come l’Italia, macchietta da cinepanettone, che alle ultime COP sul clima si è presentata con zero autorità ma con taralli e vino per tutti? “A noi interessa creare una discussione nazionale” hanno provato a rincuorarmi Marta e Antonio. L’obiettivo de La Giusta Causa è soprattutto scatenare un dibattito. Avere tanti testimoni coinvolti nel processo, diversi esperti, spazio nei media e nella conversazione pubblica per portare le istanze, prima ancora che al giudice, agli italiani tutti. Una sorta di johnny-depp-vs-amber-heard-izzazione del processo a Eni, ecco la vittoria! Un fenomeno culturalmente magnetico, che catalizzi l’occhio dei cittadini, durante e dopo il processo. E dopo ancora chissà, una fiction stile Mare Fuori, con Beppe Fiorello nei panni di un attivista di Ultima Generazione incarcerato per ecovandalismo?
Ora, all’inizio l’ho detta come se martedì scorso si fossero giocate delle partite, una vinta l’altra persa, ma in realtà la vittoria delle vecchie è una vittoria anche per i giovani, per ReCommon e Greenpeace, per le future cause. La mancata urgenza del governo svizzero sulla questione climatica che gli è costata una condanna è la stessa di ogni altro Paese europeo e delle big del fossile, dunque la decisione della corte – per altro inappellabile – fa giurisprudenza. Vale a dire cioè che crea un precedente per le future cause climatiche, che ora potranno appellarsi concretamente ai più fondamentali dei nostri diritti. Non è per nulla una banalità: se la protezione ambientale è ancora vista come roba da chi fa cosacce con gli alberi, quella dei diritti umani è ben più trasversale. Con loro è difficile scherzare, soprattutto con quelli incisi nelle costituzioni delle democrazie – da sempre molto più permalose di quelle dei regimi totalitari, notoriamente auto-ironiche. La sentenza CEDU riconosce proprio la possibilità dei giudici di decidere sulle politiche di governi e imprese, quando queste calpestano i diritti umani. È così che la causa vinta dalle nonne si trasforma in un’eredità preziosa per tutti i nipoti. Considerato poi che “ci restano solo due anni per salvare il mondo”, come ha detto enfaticamente il Segretario dell’UNFCCC Simone Stiell il giorno dopo la causa (forse esagerando), e che quindi molte di loro potranno vederlo fare solo dal camposanto.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
Se sei nuov* qui, recupera tutte le vecchie puntate su Substack, sono disponibili gratuitamente!
Se ti fanno ridere e vuoi aiutarmi ad andare avanti, condividi questa newsletter con amici e parenti, con gli sconosciuti sugli autobus, negli spogliatoi in palestra.
Se vuoi condividere un pensiero o farmi anche solo un saluto, mi trovi su Instagram.
Alla prossima settimana!
Mattia