15 minuti di follia (parte 2)
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale.
Ciao 👋 Questa settimana proseguiamo il nostro viaggio di approfondimento nella paranoia anti-ambientalista che si è sviluppata attorno alla città dei 15 minuti: è il momento di incontrarne i protagonisti. Anche se dovevano essere qui mezz’ora fa.
Dove eravamo rimasti? La settimana scorsa abbiamo visto come una piccola protesta complottista accesasi ad Oxford contro la decisione della contea di istituire degli LTN (low traffic neighborhood, niente più che le nostre ZTL) abbia riecheggiato rumorosamente sui social tra Regno Unito, Canada e USA, finendo sulle bocche di commentatori televisivi, sui giornali, perfino in parlamento inglese. Un’eco ridicola ma fuori controllo, come un peto sganciato in una cattedrale.
È il conservatore Nick Fletcher che si è preso la briga di portare in parlamento la questione degli LTN e delle città inglesi che stanno muovendosi verso il modello dei 15 minuti. Davanti ai suoi colleghi ridacchianti, Fletcher le ha definite una “cospirazione socialista internazionale” e un fenomeno da impedire assolutamente in quanto provocherebbe “un danno economico incalcolabile.” Che poi bastava usare la calcolatrice scientifica.
Ad amplificare il dibattito sulle città dei 15 minuti ci si è messo anche uno degli pseudo-filosofi più seguiti del web, Jordan Peterson. Se non lo conoscete, Peterson è una specie di Andrew Tate che però andava bene a scuola. Originariamente rinomato psicologo e professore all’Università di Toronto, è diventato in questi anni ancora più popolare come star del web dopo essere stato morso da uno YouTuber radiattivo. Vanta 6 milioni e mezzo di iscritti al suo canale, che lo seguono per il suo pensiero anti-femminista, costruito sull’affermazione del maschio come pietra cardine dell’ordine sociale e del ribrezzo del politicamente corretto. Per quanto oh, meglio lui che i Me contro Te. Peterson in queste settimane si è espresso sulla questione della città dei 15 minuti, che già aveva definito una perversione. “Ma non una di quelle buone, come l’attrazione per i piedi o il gerbilling.” Dopo la protesta di Oxford ha deciso di tornare sull’argomento in tendenza per svelare la prova dell’esistenza di un’agenda green globalista coercitiva: un estratto di un report di C40, il network globale dei sindaci impegnati nell’azione climatica (e che già che ci siamo vi consiglio di leggere), in cui viene proposta un’analisi sui cambi nella dieta necessari per allinearsi ai target di riduzione delle emissioni. Può uno studio su una dieta essere la prova di un tentativo di imporre una dittatura ecologista? Nuovamente, io Stalin in cucina che mi prepara il minestrone non me lo immagino. E nemmeno Peterson, in fondo, perché secondo lui quello sarebbe compito della moglie.
Cosa c’entra uno psicologo guru del pensiero conservatore con l’urbanistica sostenibile? Nulla, di base. Ma da tempo è diventato un rappresentante di quel gruppo di influencer che, appena possono, pescano argomenti del discorso climatico o ambientale per formentare l’aurea di vera verità vera che solo loro – più relativi seguaci – custodiscono, e che per definizione sbugiarda quelle false falsità false che gli altri (i poteri forti, i media, gli ambientalisti ideologici di sinistra, gli stessi Me contro Te) vorrebbero farci andare giù come fossimo oche all’ingrasso. O, come le chiama lui, “le ocone ciccione lardone”.
Torniamo alla manifestazione di Oxford. Ad organizzarla è Not Our Future, un nome che potrebbe sembrare una frecciatina ai Fridays For Future, ma che secondo il suo direttore David Fleming non è assolutamente correlato. Anzi se soltanto alludi all’assonanza ci resta talmente male che sbatte arco e faretra a terra. Not Our Future già nel mese di gennaio aveva portato avanti una grande campagna di volantinaggio in cui accusava la contea di volere istituire il primo “lockdown climatico” del Regno Unito e che i cittadini di Oxford sarebbero stati delle cavie. In inglese cavia si dice guinea pig, porcellino d’India. Da qui una certa confusione: nelle settimane successive alla distribuzione dei volantini, Fleming è stato bombardato di telefonate di gente che gli chiedeva tandoori, samosa e tikka masala. Immaginatevi la frustrazione di dovere continuare a ripetere a tutti che la loro era una missione per garantire la libertà dei cittadini e non un nuovo ristorante etnico, e che comunque gli ordini si possono fare direttamente su Just Eat.
Fleming era già noto come attivista no-vax e sostiene che il suo sia un movimento di cittadini liberi che si oppongono a un futuro dittatoriale che una misteriosa entità ambientalista segreta chiamata “The Blob” vorrebbe imporre, tra l’altro sempre quando finisce il TGR. In realtà Not Our Future è registrata come regolare società a responsabilità limitata e dietro all’azienda, perché appunto di azienda si tratta, troviamo un amalgama (“The Amalgama”?) di complottisti, populisti e negazionisti climatici, alcuni provenienti anche da USA, Canada e Australia. Tra i tanti troviamo Kathy Gyngell, una blogger anti-femminista e ex presentatrice TV, divenuta fiduciaria del principale gruppo negazionista climatico inglese Global Warming Policy Foundation, famoso per proporre il “phaseout completo dall’eolico e il solare” (una girata di frittata che varrebbe minimo minimo un invito nel programma di Antonella Clerici). C’è James Delingpole, “attivista anti-eolico”, che credo significhi che vada sotto le pale a soffiare in senso opposto a come tira il vento. C’è Lois Perry del gruppo negazionista CAR26, che vuole convincerci che parlare ai bambini di crisi climatica sia abuso sui minori. Tant’è che se suo figlio le parla di emissioni, lei lo gonfia di sberle. C’è Vernon Coleman, il cui libro auto-pubblicato A Bigger Problem than Climate Change: The End of Oil [un problema più grande del cambiamento climatico: la fine del petrolio] riporta in quarta di copertina la recensione “Un capolavoro illuminante”, che però si è scritto lui stesso. Ma in quanto suo unico lettore, non l’ha trovato per niente autoreferenziale.
E poi ci sono loro. I volti di facciata di Not Our Future: i fratelli Richard e Fred Fairbrass. Forse ve li ricorderete come i due muscolosi pelati della band Right Said Fred. Quelli di I’m too sexy. Se pensavate fossero morti e sepolti, vi sbagliavate alla grande. Sono tornati, sono agguerriti e continuano a essere too sexy. Non più solo for my shirt, for Milan e for my love, ma anche for OMS, for lockdown e for vaccini. Nonostante uno dei due si sia fatto nel 2021 quattro giorni di ricovero in ospedale proprio per il COVID. Convinti sostenitori di Fleming, quando hanno chiesto loro cosa pensassero del cambiamento climatico hanno assicurato che “la questione è ancora dibattuta.” Poi hanno aggiunto: “Volete che vi ricantiamo I’m too sexy?”
No-covid, no-femminismo, no-climatechange, no-politicamentecorretto, no-città-dei-15minuti. Ci sarà almeno una cosa che vi va bene? No-grazie.
E no, non è un caso che troviamo il negazionismo climatico a braccetto con tutte queste forme di complottismo. Nei tempi che corrono, non dovrebbe stupirci anzi. Lo strano periodo che abbiamo vissuto tra il 2020 e il 2021 ha aperto una breccia nelle insicurezze delle persone e lasciato uno spiraglio perché certe paranoie, varie, si insinuino come il proverbiale grissino nel tonno. È bene tuttavia mettere gli elementi nel giusto ordine e non appallottolare le cose: non è colpa della pandemia se è nato un complottismo attorno alle policy climatiche e ambientali. Gli ha solo apparecchiato la tavola. Come la vicina di casa che vi spia da dietro la tenda ogni volta che uscite col cane, entità ben conosciute aspettavano solo un pretesto per ricamare una teoria di controllo distopica attorno alle iniziative di transizione ecologica. E il pretesto è arrivato, ma non dal barboncino isterico che fa sempre pipì sulle scale d’ingresso del condomini. Bensì da nientepopodimeno che il Guardian. Il quale solitamente riesce a resistere fino all’area cani.
Il termine “lockdown climatico” prima di aprile 2020 era apparso infatti solo un paio di volte e, come racconta questa ricerca, con un’accezione tutt’altro che complottista. Quando però a metà aprile 2020 il Guardian lo inserisce all’interno di una riflessione sulla riduzione di emissioni verificatasi durante i mesi di stop del viavai mondiale, subito alcuni personaggi del mondo negazionista si attivano per provare a travisarne il significato. “La speranza dei piscialletto climatici [è] di trasformare il lockdown del coronavirus in un lockdown climatico” twitta Steve Milloy, fondatore del sito di disinformazione climatica JunkScience e affiliato a grandi gruppi conservatori di destra come l’Heartland Institute, che fanno lobby e propaganda contro il consenso scientifico sulla scienza del clima (sono finanziati da ExxonMobil) e ancora prima sui danni del fumo (sono finanziati dalla Philip Morris).
La mossa di Milloy lì per lì non ha grande risonanza. Finché, qualche mese dopo, una serie di sfortunati eventi comunicativi si inanellano. Nel giugno del 2020 il World Economic Forum pubblica un report sulla necessità di ricostruire la nuova normalità post-COVID attorno a modelli sostenibili, e lo intitola The Great Reset. Roboante e un tantino aggressivo, soprattutto perché ancora non avevano nemmeno provato a spegnere e riaccendere. A fine febbraio del 2021, sempre il WEF twitta che i lockdown avevano “migliorato la situazione nelle città”, riferendosi però alla capacità dei sensori sismici di registrare le scosse. Poche settimane dopo, come in una perversa partita di UNO, ecco che arriva il Guardian a calare involontariamente un +4 sui +2 già a terra. Un articolo della bravissima giornalista ambientale Fiona Harvey viene pubblicato col titolo “Servono lockdown globali ogni 2 anni per soddisfare i target di CO2 di Parigi.” Quello di cui parla effettivamente l’articolo è che servirebbe l’equivalente della diminuzione di emissioni di CO2 dovuta al COVID ogni due anni per rispettare l’Accordo di Parigi. Ma la correzione al titolo arriva troppo tardi ed è subito disastro: Climate Depot di Marc Morano, Stephen Miller, Fox News, tutte le principali voci del negazionismo e della disinformazione, cosa che Rete4 gli spiccia casa, si scatenano. “Loro ci vogliono ingabbiare con le loro bugie ambientaliste, il loro lockdown climatico sta venendo a prenderci,” è come se urlassero vittoriosi. “Dobbiamo fermarli.” E in breve tempo fissano nella conversazione pubblica il seme del complottismo.
Chiaro? Orche che nuotano in cerchio attorno al cucciolo di foca, i negazionisti climatici aspettavano che i promotori di iniziative ambientaliste facessero lo scivolone per cadere nelle gelide acque del complottismo. A spingerli via dal giacchio è stata l’onda, inaspettatamente complice, della pandemia.
Eccoci. A questo punto della storia, conosciamo il cosa e i chi. Ci resta da capire perché. Come mai la città dei 15 minuti è il campo di battaglia ideologico dei negazionisti? Cosa porta alle loro tasche tirare su le barricate di uno scontro ideologico e irrazionale? E quali effetti potrebbe avere questo nuovo substrato complottista sull’azione climatica più in generale? Lo scopriremo insieme la prossima settimana nell’ultima too sexy puntata di questa trilogia.
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
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Mattia
E' tutta questione di storytelling, come nelle barzellette! :)