Eppur si muore di caldo, anche quando fa freddo
Ride verde chi ride ultimo – Uno sforzo di immaginazione ci salverà dalla crisi climatica?
Qui al Nord fa freddo caldo, caldo freddo, “ma che è, vivi in un frigorifero?” dicevano Ficarra e Picone in un vecchio sketch — anche se vista la situazione nella loro Sicilia non sfotterei più di tanto. Per chi vive nel frigorifero, diventa fin troppo facile negare il caldo anomalo che attanaglia quasi tutte le altre comunità nel mondo. Soprattutto se ci si rifiuta di contestualizzare gli schiaffi di acqua e freddo (o peggio) di questo luglio come rovescio della stessa medaglia. È un paradosso che accompagna i nostri primi anni di sconto della condanna al clima che cambia: c’è chi muore di caldo e chi non crede faccia caldo. La chiamiamo aria condizionata, forse sarebbe il caso di iniziare a chiamarla aria condizionale, come nelle frasi ipotetiche. “Se non piovesse sempre, crederei a quella storiella del riscaldamento globale.” E ci si rifugia dietro comodi scudi offerti dalla disponibilità economica, esattamente come quella necessaria per mettersi l’aria condizionata in casa. Allora dico: e se la condizione per averla fosse ammettere che fuori faccia più caldo, avremmo meno negazionisti?
Io comunque sto imparando a farmi trovare pronto ai cambi repentini del meteo di queste settimane: ormai dormo in mutande ma con il cappotto sotto il cuscino. È una soluzione originale e nemmeno troppo scomoda, se non fosse che ancora non so dove mettere l’ombrello. Il fatto che dorma a pancia in giù, un po’ mi preoccupa.
Basterebbe per una volta tirarci fuori dalla nostra percezione e ascoltare le tragedie degli altri:
Il numero di giorni in cui si superano i 35°C nelle 20 città più grandi del mondo è aumentato di oltre metà negli ultimi trent’anni, e nessuna di queste città ha ancora introdotto una domenica extra per andare al mare.
Gli agricoltori di Stati Uniti, Cina, India, Russia sono messi in ginocchio dalle ondate di calore, e chissà che già che ci sono non facciano un bel picnic bene organizzato e abbandonino i conflitti.
I primi roghi estivi, arrivati in anticipo, stanno forzando l’evacuazione di 28.000 californiani: code chilometriche di skateboard intasano da giorni le superstrade nel Golden State.
Il turismo in Grecia è nuovamente vittima di roghi e temperature inadatte al suo tipico pubblico vacanziero, che sarà costretto a ricostituirsi da anziani tedeschi con le calze bianche sotto i sandali ad anziani Viet Cong, nostalgici della roulette russa.
In Arabia Saudita più di mille pellegrini sono stati uccisi dall’ondata di calore (temperature sopra i 50°C) che li ha colti durante i rituali islamici dell’hajj, il viaggio santo verso la Mecca; in India più di cento persone sono rimaste schiacciate da una folla presa dal panico e dal caldo intenso durante una preghiera di massa in una cerimonia induista; ai cattolici dice meglio, perché vero che a Roma si sono registrate temperature infernali per le strade, ma solo quando hanno preso a circolare i video di Harry Styles al mercato l’atmosfera si è scaldata realmente. Nei seminari, soprattutto.
Sì, anche essere un fedele è dura, in tempi di crisi climatica. Più di quanto ci si possa immaginare. E dire che a loro l’immaginazione non è mai mancata. I cristiani per anni si immaginavano le streghe e le bruciavano (spiega Eleazaro Rossi: “Volano, queste p*****e!”). Oggi per capire questo caldo intenso, o ci bruci dentro o tocca immaginarlo. Certi scienziati cercano perfino nuovi modi di definirlo. Uno studio pubblicato a maggio propone una nuova misura per il caldo: l’appiccicosità, in inglese stickiness (“da non confondere con stitickessss”, direbbe Ezio Greggio), che considera non solo le temperature del termometro, ma anche l’umidità nell’aria e altri fattori tipo il numero di volte che ti chiede “Quand’è che mi porti a conoscere i tuoi, eh? Eh?!” in un solo appuntamento. C’è caldo e caldo, insomma, e noi cerchiamo nuovi nomi da dargli, come dei Giovanni Battista del nostro squagliamento, come gli Inuit che hanno decine di modi diversi per dire ghiaccio e neve ma nessuno per avvisarti che hai lasciato lo sportello del frigo aperto.
E poi ci siamo noi italiani, bloccati tra piogge e freddo nordici e caldo e siccità suddici, semper fideles ai cliché della RAI degli anni 60, affezionati all’etichetta “mal tempo” nemmeno fossimo Furia il cavallo del West e refrattari all’uso delle parole “emergenza climatica”, in un eterno mannaggismo che ci fa fare spallucce davanti agli eventi estremi e mea culpa nazionali per le sconfitte calcistiche. “La verità è che in Italia non stiamo affrontando il clima come un problema reale, che richiede soluzioni reali” scrive Ferdinando Cotugno. Ma che ne sa lui della difesa a tre con i quinti che spingono in attacco? Però ha ragione, siamo nel mondo dell’immaginario, ma non immaginiamo le cose giuste. Rubo a Daniele Luttazzi:
“Non riesco ad immaginare come l’uomo da solo possa influire sul clima dell’intero pianeta…”
“Be’, fai uno sforzo!”
È la scrittrice Rebecca Solnit che in un articolo sul Guardian dell’anno scorso diceva che se si vince l’immaginazione popolare si cambia il gioco. Lei propone le storie, come soluzione. Domenica scorsa mi sono rivisto Hook - Capitan Uncino dopo anni che non capitava, e ho riscoperto la meraviglia per quel film che da bambino mi faceva correre in giro facendo pensieri felici e obbligava i miei a tener chiuse le finestre. Nel film di Spielberg, un uomo che ci ha abituati a immaginare, ho trovato anche un riferimento alla crisi ecologica che non avevo mai catturato prima: Peter Banning (Robin Williams), dimentico di essere Pan e affamato businessman americano, parla al telefono con un socio in affari che lo informa che il loro mega progetto da 5 miliardi di dollari è rimasto bloccato dalle autorità a seguito della scoperta di un piccolo gufo e la relativa necessità di presentare una relazione ambientale. Peter sconcertato risponde: “Digli che l’evoluzione ha sempre provocato vittime, chiedigli se qualcuno sente la mancanza del Tyrannosaurus Rex! Aspetta, ma come un gufo di 20 centimetri ha un raggio di accoppiamento di 80 km? Ma perché non vanno a fornicare da qualche altra parte?”
Credo fortemente che sono queste le storie di clima, le storie nel clima anzi, cioè che sfiorano, includono, si immergono o ruotano attorno alla crisi climatica e ambientale, che necessitiamo ma che la narrativa fatica ancora a proporci. L’ho anche detto (forse un po’ supplicando) ad una piccola classe di giovani filmmaker da tutto il mondo venerdì scorso, un caldo venerdì qui a Milano, durante una chiacchiera su come comunicare la crisi climatica che avevo proposto all’interno del programma del Festival Duemila30. Spero mi abbiano ascoltato e che produrranno presto le loro storie nel clima. Ma chissà, magari pensavano solo al caldo. O si stavano già immaginando altro.
Voi, tu che mi leggi: pensi ci sia troppo poca crisi climatica e ambientale nella narrativa, cioè in film, serie, ma anche musica e romanzi? Vorrei aprire un filone di segnalazione di quei titoli che, come Hook, lo fanno. Probabilmente sarà sul mio profilo Instagram, ma se nel frattempo ti sei già imbattut* in qualche bel riferimento che hai visto o ascoltato ultimamente, segnalamelo per messaggio, commento o in risposta a questa mail, grazie!
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
Se sei nuov* qui, recupera tutte le vecchie puntate su Substack, sono disponibili gratuitamente!
Se ti fanno ridere e vuoi aiutarmi ad andare avanti, condividi questa newsletter con amici e parenti, con gli sconosciuti sugli autobus, negli spogliatoi in palestra.
Se vuoi condividere un pensiero o farmi anche solo un saluto, mi trovi su Instagram.
Alla prossima settimana!
Mattia
Devo andare subito a rivedermelo "Hook - Capitan Uncino", è sfuggito anche a me il passaggio sull'areale di accoppiamento del gufo 🦉.
L’aria condizionale mi ha fatto volare ✈️ (l’emoji aereo emette troppa cO2?)