Fashionista
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale.
Ciao!👋 Questa settimana parliamo del mio viaggio nei contenitori gialli della raccolta dei vestiti 👚👕
Avete presente quei grossi cassoni gialli agli angoli della strada dove si possono lasciare i vestiti che non mettiamo più, i cappotti, i cappelli, le scarpe e occasionalmente qualche cucciolo che avevamo voluto portare a casa per riempire la nostra quotidianità di amore incondizionato per un esserino indifeso prima di ricordarci di aver già versato la caparra delle due settimane di B&B in Salento?
Ecco, sappiate che quei cassoni non sono tutti uguali, perché a gestirli sono entità diverse. Alcuni sono infatti di proprietà di Dio, o meglio delle sue affiliate, come la Caritas, la diocesi locale, l’Ordine di San Tommaso, che se non infila il dito nei buchi del maglione non ci crede che è usato; o la Compagnia di Giuda, recentemente smascherata da un’inchiesta che ha rivelato come invece di donare l’abbigliamento raccolto ai bisognosi, li metteva tutti in vendita su Vinted per 30 denari.
Altri contenitori sono invece di Humana People to People, un’organizzazione umanitaria (laica) che in Italia ha appena compiuto 25 anni. Humana ha disseminato più di 38 mila contenitori gialli in 14 paesi, 5 mila solo in 37 province italiane, e poi ha pure il coraggio di lamentarsi quando la mamma le chiede di rimetterli a posto. La scorsa settimana ho avuto il piacere di visitare la loro sede di Pregnana Milanese, dove hanno presentato il nuovo grande impianto semi automatico di selezione che grazie al lavoro di 40 persone può gestire 12.000 tonnellate di abiti all’anno. Perché proprio a Pregnana? Indagini toponomastiche ci dicono che il borgo era famoso per le sue donne particolarmente fertili, dunque il posizionamento per gli usi di cui dicevamo in apertura sarebbe una scelta più che altro di comodità.
Sono stato invitato all’evento di presentazione da Alfio Fontana, un volto amico dai tempi in cui facevo ricerca al PoliMI. All’epoca, Alfio si occupava della CSR di Carrefour con la quale aveva agevolato l’entrata in Italia di Too Good To Go, l’app anti-spreco alimentare. Prima il food waste, ora gli scarti della moda, Alfio è uno che l’economia circolare se la porta addosso. Anche se, a suo dire, dovrebbe solo riprendere ad allenarsi. All’arrivo mi fanno sedere davanti a un palchetto da cui la presidente Karina Bolin sta raccontando i progressi raggiunti dall’organizzazione. Intorno alla platea un muro grigiastro di balle di vestiti impilate alto parecchi metri dipinge un’atmosfera da mondo post-apocalittico, nel quale i fossili della cultura consumista offrono agli umani superstiti il materiale con cui arrabattarsi giorno dopo giorno. Mi ricorda un po’ l’armadio di mia madre.
Iniziamo il tour e scopro che Humana funziona così: i vestiti raccolti nei suoi cassoni a bordo strada vengono indirizzati a impianti di selezione gestiti in molti casi da Humana stessa - in Italia qui a Nord di Milano, all’estero in Bulgaria, Slovacchia e Lituania - e in altri da partner terzi. Giunti nello stabilimento, i capi vengano subito distinti tra quelli adatti a riutilizzo e riciclo e quelli invece troppo rovinati, che verranno mandati al recupero energetico. In questa cernita fa tanto l’integrità dell’operatore, che non dovrà farsi corrompere dalle banconote “dimenticate per sbaglio” nelle tasche dei pantaloni. Dopo una prima macro-distinzione, dunque, un nastro trasportatore fa scivolare vagonate di indumenti a una ventina di postazioni sparse in un’ampia zona di lavoro. Operaie (e qualche operaio) si occupano qui di uno smistamento più dettagliato. Alcuni capi sono in buonissimo stato - secondo i dati Humana sono il 65,1%. Altri vengono preparati per il riciclo meccanico, che permetterà di estrarre da essi una parte di materiale (a volte minima, a seconda della loro fattura) e rimpiegarla all’interno di nuovi processi produttivi.
I vestiti in buono stato possono finire nei negozi solidali o di grossisti, ma soprattutto vanno nei negozi della catena Humana, dove le vendite generano soldi che la fondazione poi potrà impiegare come fondi nei progetti di medio-lungo termine che porta avanti in Africa, Asia e America Latina. In questi Paesi arrivano ovviamente anche lotti di vestiti, selezionati per la loro conformità al clima e lo stile di destinazione: è il cosiddetto Tropical Mix, che con un nome da succo di frutta potrebbe anche sembrare un filino razzista, ma l’alternativa migliore saltata fuori in sede di brainstorming era “PapiRico JumboBongo Pack” e quindi Tropical Mix sia.
Mentre giriamo per l’impianto, una selva di telefoni si solleva sopra le teste di noi visitatori, che riprendiamo curiosi le operazioni di pre-selezione, di smistamento, di controllo, di valutazione, come se fossimo ad un concerto dei Coldplay o stessimo osservando dei bonobo nelle gabbie dello zoo. Veniamo rapiti dal veloce movimento delle mani competenti che sollevano, rigirano e decidono quale possa essere la nuova vita dei capi, giudicandoli sotto una spietata luce bianchissima, tante San Pietro alle porte del Paradiso. E noi staremmo ore a osservarle, ma è ora del pranzo e Chris Martin sta già iniziando a lanciarci la cacca dalla sua gabbia.
Al buffet mi riempio come il carrello dell’account Shein di un’adolescente insicura. E intanto nutro una strana angoscia. Quello che ho visto fare a Humana è ammirevole, e posso solo stimare chi, come loro, si prende la briga di rovistare tra gli scarti della nostra famelica fame materiale. Continua però a tormentarmi l’immagine di quel nastro trasportatore che scarica ondate di vestiti giù per i camini delle diverse postazioni di lavoro, come un Babbo Natale approssimativo e frettoloso. Ondate che non accennano a fermarsi. E a quel punto capisco la mia sensazione di annegamento: non è uno tsunami, ma il livello del mare che si innalza costante, incessante, senza cuore. Cos’è Humana allora, se non un bambino testardo che prova a contenere il mare un secchiello alla volta? Per altro sull’asciugamano dell’ingegner Sbarbella, vicino di ombrellone.
Perché l’industria della moda è estremamente fallata e non possiamo pensare di darle un senso ecologico semplicemente appiccicando delle soluzioni virtuose in fondo alla catena del valore. Produce da sola circa il 10% delle emissioni globali di CO2, il 20% delle acque refluee, il 90% degli influencer più odiosi. Si stima che per un paio di jeans servano dieci mila litri d’acqua, la stessa quantità che una persona impiega 10 anni a bere, e io ho provato a bermi i jeans, anche frullati restano ruvidi. Jeans che per arrivare ai nostri negozi partono da stabilimenti produttivi delocalizzati dove il lavoro si confonde con la schiavitù, navigano per migliaia di kilometri su un mare che il settore stesso contribuisce in larga parte a inquinare con il massiccio impiego di prodotti chimici, tra cui gli ultimamente famosi PFAS, per poi essere indossati sotto la giacca da manager 60enni che vogliono apparire giovani e sportivi. La moda è ritenuta responsabile del 35% delle microplastiche nel mare, soprattutto perché gran parte di quello che ci mettiamo addosso è poliestere, un polimero sintetizzato dal gas e dal petrolio. Tutto ciò all’ombra della questione dei diritti umani, che non sto nemmeno ad approfondire perché dai, ammettiamolo, a 10 anni dal disastro del Rana Plaza sarebbe anche ora di parlare di qualcos’altro, no? Se no finiamo come Techetecheté che ogni estate riciccia fuori sempre le stesse, solite tragedie trite e ritrite.
Non possiamo girarci attorno: ci serve comprare meno, comprare a migliore qualità per poter indossare più a lungo, riabituarci a prendere in prestito e a riparare. Per noi tutti è un bene che esistono Humana, tecnologie di riciclo e modelli virtuosi. Sono ammirevoli, lo ribadisco, quanto necessari. Ma se la marea nemmeno proviamo a fermarla, non saranno mai sufficienti. Per quanto bravi a riempire i secchielli sulla spiaggia possiamo diventare.
“Ma avete mai pensato di mandarlo in Africa con Humana, il vostro bambino?”
“Ingegnere, è troppo piccolo per il volontariato!”
“Però nello sportello del cassonetto entra benissimo.”
Per addentrarvi nell’armadio oscuro della moda (chiamatemi pure Signor Tumnus) vi lascio alla visione di Junk – Armadi pieni, documentario disponibile su YouTube prodotto da Will Media con Sky, e di una chicca sulla fast fashion dell’impareggiabile Climate Town.
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
📰 Breaking le news
La Chiesa di Inghilterra disinveste i suoi 10,3 miliardi di dollari in fondi pensione dai combustibili fossili (The Guardian). Niente più supporto a Shell, BP e sorelle se non si rimetteranno in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Ma le Big dell’Oil&Gas corrono ai ripari: settimana prossima i primi colloqui con Satana.
I fornelli a gas emettono più benzene del fumo passivo (The Guardian). “Cucini tanto, tu?” “Mah, ogni tanto la sera, con gli amici.”
In Svizzera vince il Sì al referendum per diventare carbon neutral entro il 2050 (Green&Blue). Batte, con il 60% delle preferenze, il “No, Novi” degli oppositori.
L’orsa JJ4 potrebbe fare le valige? Gli animalisti: “Romania pronta a ospitarla” (La Svolta). Bucarest conferma: “Basta che mi dite a che ora la portate a fare pipì di solito.”
Le Nazioni Unite hanno adottato il primo trattato per proteggere la vita marina in alto mare (il Post). Per entrare in vigore il testo dovrà essere ratificato da 60 paesi a partire dal 20 settembre: sarà davvero l’ultima estate per gli amanti del padel con scorfano?
Le orche che hanno imparato ad affondare gli yacht nello Stretto di Gibilterra (Rivista Studio). Se Capitan Uncino temeva il ticchettio della sveglia nella pancia del coccodrillo, oggi i marinai tremano alle note di “Taxer les riches”.
L’Islanda sospende la caccia alle balene per quest’anno (LifeGate). La pratica risulta incompatibile con la legge vigente sul benessere animale, che nel suo primo articolo recita: “Agli animali potrebbe non piacere essere uccisi.”
Sudata fredda:
Dal Consiglio UE il via libera alla legge per il ripristino della natura, ma l’Italia vota contro (Icona Clima). Misunderstanding tra i ministri italiani: appena sentito che Pichetto Fratin aveva votato contronatura, la Roccella ha proposto una legge per perseguirlo.
La Russia mette al bando le associazioni ambientaliste (Green&Blue). Sanzioni durissime per chi parteciperà alla pulizia dei parchi con Plastic Free: verrà lapidato con i tappi delle bottiglie raccolte.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Grazie e a presto!
Mattia
Gagliarda questa puntata: mi piace il formato di racconto dal campo.