Fuoco Ebbasta
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale.
Ciao!👋 Torno dopo due settimane di pausa per raccontarvi cosa ho imparato durante il mio recentissimo viaggio in Islanda 🇮🇸 una terra che fa rima con crisi climatica.
Con climaticanda, a volere essere precisi.
In Islanda c’è un detto: “Se non ti piace il meteo, aspetta cinque minuti.”
Oppure cambia canale.
Due settimane fa arrivavo sull’isola del Nord Atlantico durante una bufera di neve. Un vento imperioso si accaniva con la stessa malmostosità di una signora cinese in coda dietro di me in ravioleria. Raffiche di ghiaccio si intrufolavano sotto il cappuccio soffiandomi via l’ossigeno dalla bocca, come quando da piccolo facevo ciondolare la testa fuori dal finestrino in corsa. A tratti, le sberle d’aria erano così forti che ad aprire la portiera dell’auto a noleggio si rischiava di farla volare via come un aquilone; e chiuderla era più difficile che spostare un muro, soprattutto per via di tutta la trafila dei permessi in Comune. Signora, non è che lei ha un cugino geometra? Ok ok, chiedevo soltanto, ora scelgo i ravioli. La smetta di spingere, però.
L’Islanda è uno di quei posti magici dove la natura ancora comanda, senza se e senza ma. Prova a non correre a tavola quando ti dice che è pronto, vediamo se domenica ti fa andare alla festa di Luca. La chiamano “la terra del fuoco e del ghiaccio”, che per quanto suoni immaginifica, non è altro che una mera didascalia: l’11% del territorio islandese è coperto da ghiacciai, e sotto i ghiacciai ci sono vulcani. Chi ha pensato a questa definizione ha effettivamente scoperto l’acqua calda.
Una cosa che ho imparato è che quella “e” tra “del fuoco” e “del ghiaccio” è ben più di una congiunzione: è una conseguenza. Nelle regioni con vulcani attivi, come l’Islanda, dove si fonde il ghiaccio si trova infatti più magma. Questo perché se diminuisce la pressione che lo strato di ghiaccio ha sullo strato roccioso sottostante, la generazione di magma risulta agevolata. Diventa inoltre più facile, per questo budino caldo di rocce, arrivare in superficie.
Tredici anni fa, lo ricorderete, ci fu una polverosissima eruzione di un impronunciabilissimo vulcano che paralizzò la circolazione aerea di tutta Europa. Il vulcano si trovava sotto l’Eyjafjallajökull (-jökull è la desinenza dei ghiacciai), e gli aerei si bloccarono per una settimanella intera. Più o meno quanto la vostra lingua se provate a dire Eyjafjallajökull ad alta voce. L’eruzione fu proprio il risultato violento di un incontro tra il magma incandescente e la gelida acqua proveniente dalla fusione del ghiacciaio.
Quell’eruzione ebbe un altro effetto interessante, soprattutto se ci pensiamo oggi: mentre liberava quotidianamente dalle 150 alle 300 mila tonnellate di CO2 in atmosfera, il blocco dei voli permise di risparmiarne molte di più, circa 340. Dati alla mano, l’Eyjafjöll è stato il primo vulcano attivista climatico della storia moderna. Tanto che oggi le destre lo ricordano come un criminale, la procura di Pavia sta provando a dargli la sorveglianza speciale come a Simone Ficicchia, e il mondo dei commentatori social continua a scrivere quanto sia inutile questo tipo di protesta sotto i suoi vecchi video di YouTube.
Una delle conseguenze più evidenti del clima che cambia a causa delle attività umane è la fusione dei ghiacciai. Qui in Italia ci è tristemente noto. In Islanda, quasi tutti i ghiacciai si stanno ritirando a ritmo di 10 miliardi di tonnellate all’anno. Anche se a sentire i negazionisti sarebbe semplicemente merito della nuova scheda della palestra. I modelli degli scienziati dicono che quasi tutti i giganti di ghiaccio potrebbero scomparire nei prossimi cento, duecento anni. “Ma che ne sanno gli scienziati,” ribattono i negazionisti “che non fanno nemmeno pilates!”
Mentre si “sciolgono”, i ghiacciai alimentano eruzioni vulcaniche sempre più frequenti e estese. La portata di quello che sto dicendo si intuisce fin dal nome d’arte di questo Paese: Islanda, dall’originale nome norreno Ísland, in inglese Iceland, cioè ice + land, ghiaccio + terra. Ma senza ghiaccio e con solo colate laviche, avrà ancora senso chiamarla così? E come potremmo chiarmarla, per essere più coerenti? Forse “la terra del fuoco e basta”, tipo Sfera ma senza autotune.
Io ci sono salito tra le pieghe azzurre di un ghiacciaio islandese. È il grande Vatnajökull, il più grande d’Islanda. Vincenzo, una guida romana che ci ha fatto strada lungo la passeggiata (bella ma spaventosa) sullo scivoloso cristallino, ci ha mostrato quanto volume è andato perduto negli ultimi cinquant’anni. Ad ampi gesti ha indicato un punto non troppo precisato in fondo a quella che ora è una pozza d’acqua calma, un laghetto verdastro che si allunga per un centinaio di metri. “Stava lì, prima” ha mormorato, con la stessa gravitas di chi ha appena capito che gli hanno fottuto il motorino.
Succede una cosa davvero controintuitiva quando, su un’isolona come l’Islanda, i ghiacciai fondono, e cioè che il livello del mare si abbassa. O meglio, la terra si innalza. Mi spiego. Giganti come il Vatnajökull hanno schiacciato per secoli il suolo sottostante. Perdendo massa durante la fusione, diventano più leggeri e questo fa sì che il terreno “rimbalzi” indietro. A questo innalzamento meccanico del suolo si aggiunge, con mia grande sorpresa, l’allontanamento delle acque circostanti all’isola. Perché “dimagrendo” i ghiacciai affievoliscono la propria attrazione gravitazionale sulle acque oceaniche, che quindi fuggono altrove. E se questa non è #bodypositivity, non so davvero cosa sia il politicamente corretto.
Il clima che cambia ha impatti diffusi in Islanda, e non solo relativamente al ghiaccio. Sono stato alla spiaggia nera di Vik, lì dove si assiste all’oceano che morde iracondo le estremità dell’isola. Anche l’ecosistema marino di quella grande fetta di acque, che gli islandesi hanno strappato agli inglesi negli anni della Guerra del Merluzzo, è a rischio. L’acidificazione sta alterando distribuzione e presenza di molti pesci, e qualche preoccupazione è lecita. Basta sedersi ad un qualsiasi ristorante per comprenderlo. Tipicamente sui menù si trova o il pesce o l’agnello. O l’agnello, o il pesce. Spesso entrambi, a volte l’uno che cucina l’altro. Se chiedi l’opzione veg in un ristorante islandese, il cameriere ti sputa in faccia e guardandosi l’orologio dice: “Ma dai, sono già passati cinque minuti?” È chiaro dunque che la futura probabile scarsità di pesce significherà un profondo sconvilgimento nella quotidianità delle comunità locali, nella loro economia e nel turismo stesso. Per non parlare di come si sentirà l’agnello.
Non che nell’entroterra ce la si passi meglio, ho pensato mentre tagliavo in auto gli ampi panorami lunari che fanno dimenticare i ruggiti della costa. Le strade tracciano righe in mezzo alle distese desertiche di roccia nera ricoperta da neve, da muschio, da erba pagliericcia. Mi chiedevo dove potessero nascondersi gli animali di terra, in una dimensione così esposta e nuda. Gli unici animali che incontravo, in piedi e forti, erano i bellissimi cavallini islandesi, equivalente equino degli elfi di Tolkien, dalle lunghe chiome setose, dall’ancestrale resistenza alle sferzate del meteo e da una peculiare rassomiglianza a Orlando Bloom.
Non deve essere sempre stato così. Nonostante il nome, quest’isola era in origine molto più alberosa. All’arrivo dei primi insediamenti vichinghi nel IX secolo, le foreste occupavano tra il 25 e il 40% dell’Islanda. Tantissime betulle, poi salici, sorbi e qualche pioppo. Soppiantate rapidamente da pascoli, distrutte per fare legna e carbone, non certo agevolate da un clima tanto rigido, queste inquiline dell’isola si ridussero ad occupare appena lo 0,5% del territorio all’inizio del secolo scorso. Troppo gentili per reclamare il proprio spazio, troppo timide per chiedere che perlomeno venisse abbassato l’affitto.
Eppure l’Islanda ci prova a sistemare le cose. Dall’inizio del Novecento ad oggi sono stati portati avanti grandi programmi di afforestazione. La porzione di Islanda riforestata è attualmente quattro volte più estesa di come era un secolo fa, e si spera di raggiungere il 12% dell’intera isola per la fine di questo. La conseguenza climatica è entusiasmante, poiché significa aggiungere un nuovo bacino in cui mettere al sicuro un po’ della CO2 sequestrata dall’atmosfera. Come col vulcano che bloccò gli aerei nel 2010, nuovamente con la natura si prova a mettere una pezza.
L’Islanda ha l’intenzione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2040, tagliando le emissioni di gas serra del 40% entro il 2030. E in mano ha buone carte. Sotto i sederi islandesi ribolle tanto di quel calore geotermale che riescono sia a scaldarci tutti gli edifici, sia a produrre parte dell’energia elettrica che utilizzano. L’altra parte dell’energia prodotta, la maggior parte, deriva invece dall’idroelettrico, permesso dalla grande disponibilità di corsi d’acqua irruenti e clamorosi che producono spettacolari cascatte (le -foss) ovunque ti giri - Gullfoss, Skógafoss, Seljalandsfoss tra quelle che ho visto io. Meravigliose e imponenti, pericolosissime per chi come me deve fare pipì ogni due secondi. Sapete cosa significa ammirare l’incessante scrosciare di una cascata islandese con la vescica di un cardellino? Mattiafoss.
Nessun Paese si risolve i propri problemi climatici da solo, nemmeno l’Islanda.
Nonostante il suo mix energetico quasi totalmente rinnovabile. Dicevamo prima che praticamente tutti i ghiacciai islandesi potrebbero fondere nei prossimi cento o duecento anni. Quanti sono, duecento anni? Troppi? Di altri? No, duecento anni sono un tempo “nostro”. Un arco di anni che in verità viviamo, tocchiamo, contribuiamo a costruire.
Ce lo spiega bene proprio un islandese. Si chiama Andri Snær Magnason ed è scrittore, intellettuale, poeta, performer, attivista ambientale, e politico, ma del resto in Islanda o ti ubriachi male in attesa di scivolare nella depressione o qualcosa da fare devi trovartela. Se non ci riesci, c’è Magnason che i mercoledì mattina fa il consulente in un’agenzia interinale di Reykjavik.
In un passaggio del suo Il tempo e l’acqua, libro che consiglio a chiunque voglia approfondire la questione climatica tramite storie incredibili Made in Iceland, descrive un giochino fatto con le figlie. Racconta di questa nonna nel 2100 che sta impastando frittelle con le nipotine e propone loro un gioco. Chiede loro di fare un calcolo: “Quando sarà ancora vivo qualcuno a cui vuoi bene?” fa la nonna. “Voi avete dieci anni, in che anno ne compirete novanta?” e le bambine scrivono 2100-10+90=2180. Al che la nonna dice di immaginarsi che avranno un nipotino nato nel 2170, e chiede loro di calcolare quando lui compirà novant’anni. “2260” dicono in coro le bambine. “Sì, pensate un po’! Questa persona a cui vorrete bene più di ogni altra cosa al mondo sarà ancora viva nel 2260. Sono più di 250 gli anni che si collegano attraverso di voi. (…) Qualsiasi cosa facciate ha una sua importanza. Voi create il futuro ogni giorno che passa.”
Cosa ci rivela Magnason, a parte la sua evidente ignoranza del fatto che i ragazzini ormai, tra TikTok e monopattini elettrici, alle frittelle con nonna preferiscono gli streamer su Twitch? Che si fa presto a dire cent’anni, duecento, e infischiarsene. L’insegnamento è che noi umani ci illudiamo di vivere meno di quello che realmente viviamo. Perché il nostro arco temporale è fatto anche di chi ci ha portato al mondo e chi porteremo noi. “Con le nostre mani, possiamo estendere la nostra capacità di contatto lungo un arco di 250 anni” spiega in un’intervista l’autore. E questo significa che anche i ghiacciai islandesi che fonderanno tra cento, duecento anni sono roba che noi stessi toccheremo.
Bagnandoci, ovviamente.
Io una capatina in Islanda 🇮🇸 ve la consiglio, ma fate attenzione a come la visiterete. È un’esperienza da vivere con la mente aperta tanto quanto gli occhi. E mi raccomando copritevi! Ma soprattutto: occhio alle portiere.
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
📰 Breaking le news
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Venezia “a secco”, canali senz’acqua ma non dipende dalla siccità (SkyTG24). È colpa di De’Longhi.
L’ingombrante presenza di Plenitude a Sanremo (Il Post). Io ero in viaggio e purtroppo me lo sono perso. Come si è classificata quest’anno la greenwashata di ENI? Seconda?
Tallinn, capitale verde degli animali: 1500 mammiferi hanno trovato casa (Repubblica). Però con un bagno solo.
La Chiesa austriaca invita i fedeli ad evitare l’automobile fino a Pasqua (Green and Blue). Il portavoce dell’iniziativa: “Non vi dico camminate sull’acqua, ma provate almeno il bike sharing…”
Energia, il calore che sprechiamo potrebbe alimentare l’Europa (Icona Clima). Da marzo, basta effusioni con la finestra aperta.
In treno fino alla Papua Nuova Guinea, Gianluca Grimalda: "È dal 2011 che cerco di viaggiare a bassa intensità carbonica" (Green and Blue). Certo che un ritardo di 12 anni è indecente anche per i nostri standard.
Brasile, luci e ombre sui primi due mesi di Lula (Italian Climate Network). Caravaggiao.
Sudata fredda:
L’attivista e la pistola puntata in faccia a Torino: “Ci criminalizzano, ma siamo pacifisti” (LaStampa). Per le forze dell’ordine è una doppia provocazione.
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Mattia
Bel racconto dall'Islanda, ci dovrò andare prima che fonda tutto! Mi hai fatto tornare alla mente un graphic novel che ho letto poco tempo fa: "La saga di Grimr" di Jérémie Moreau, che restituisce proprio la potenza inumana dell'Islanda e la capacità tutta umana di disintegrarla.
P.S.
Caravaggiao è una genialata da paura 😂😂