Paura evolutiva
Ride verde chi ride ultimo – Tra voli turbolenti e scarafaggi urbani, dovremmo avere paura dei nostri effetti su clima e ambiente?
“Di cosa hai paura, Tom? Del buio, dei pagliacci, di parlare in pubblico, di perdere il treno? Della morte, Tom, è di questo che hai paura?”
“Ho paura che ha sbagliato numero, questa è casa Fregaccia.”
Oh, mi scusi signora. È la paura che gioca brutti scherzi. Lo avranno pensato i passeggeri del volo Londra-Singapore di cui si è parlato parecchio negli scorsi giorni: un aereo arrivato sì a destinazione, ma tragicamente, a causa di una turbolenza terribile che lo ha colpito. Persone volate contro il soffitto, sbalzate due o tre file indietro, gente che piangeva, gridava, si lamentava con la hostess perché non le era ancora arrivato il tè caldo che aveva ordinato e quelli a fianco a urlare: “E menomale!”. Diversi passeggeri sono finiti all’ospedale, per fortuna solo dopo essere atterrati. Un anziano signore ha purtroppo avuto un infarto fatale. Solo la moglie ancora insiste: “Ma no, è che quello lì non lo svegliano neanche le cannonate.”
Ovviamente, in tutto questo c’è lo zampino del riscaldamento globale. In un'atmosfera più calda le turbolenze sono più frequenti e intense. Lo confermano i dati dell’aviazione degli ultimi anni e ci raccontano di un futuro prossimo in cui simili episodi si ripeteranno sempre più spesso; come infatti due giorni fa sul Doha-Dublino (12 feriti) pronti via. Se consideriamo che volare è la modalità di spostamento che impatta più negativamente sul clima, è come se i Boeing 747 fossero enormi zappe che ci atterrano sui piedi. E questo circolo vizioso cambia il nostro approccio all’idea stessa di volo. Chi è solito fare flight shaming, d’ora in poi potrà passare al flight telavevodettoing. Quelli che dal 2001 a oggi hanno nutrito pregiudizi verso il vicino di sedile con il turbante, adesso inizieranno a pregare sia un terrorista e non un climatologo. Chi prima applaudiva all’atterraggio, nemmeno il capitano fosse un illusionista a fine numero, inizieranno a prostrarsi ai piedi dell’equipaggio di volo e invocarne la santificazione, perché compiuto sarà il miracolo.
Più le conseguenze della crisi ecologica ci spaventano, più ci scopriamo dottor Frankenstein. Prendiamo gli scarafaggi, per esempio. Creaturacce che si annidano nei meandri delle nostre case, mescolando terrore a schifo, facendoci sobbalzare ogni volta che accendiamo la luce e vediamo ombre sgattaiolare via (chiaramente non a tutti fanno lo stesso effetto e ci sono addirittura persone a cui piacciono, ma chi sono io per giudicare i malati di mente?). Questa settimana abbiamo scoperto una cosa sbalorditiva sugli scarafaggi: li abbiamo creati noi. Senza le città, infatti, non sarebbero mai esistiti. Cioè, sono letteralmente dei piccoli mostri del nostro genio irresponsabile. Li abbiamo creati, portati ovunque, e ora proviamo a scacciarli con fiaccole e forconi. L'unico motivo, tra l’altro, per cui fiammiferi e forchettine da cocktail si trovano ancora in commercio.
Lo spiega una nuova ricerca condotta sul DNA della Blattella germanica, la specie più diffusa di scarafaggio, notoriamente invasiva e problematica – o almeno così dicono le sue maestre a scuola. I ricercatori hanno trovato la prova che sia derivata dallo scarafaggio asiatico (Blattella asahinai) circa 2100 anni fa. È successo in India e in Myanmar, proprio nei luoghi in cui gli umani si erano stabiliti in centri abitativi urbani, precisamente come risposta alle condizioni di questi nuovi ecosistemi artificiali. E questa cosa mi ha un po’ spiazzato. Avevo relegato l’idea di evoluzione a un fenomeno che capita da qualche parte fuori dagli spazi e dai tempi di noi umani. Come dire okay le specie si sono evolute prima di noi e poi qualcuna lontano dei nostri occhi, tipo nelle aree remote e intatte del globo, tipo le Isole Galapagos, ecco, fino a quando poi è arrivato Darwin, l’ha scoperto e ha tirato il freno a mano.
“Ma come galapago guida?” dicevano infatti di lui le tartarughe.
Questo pensavo. Ma in realtà l’evoluzione succede in città. Lo spiega il professore Stefano Mancuso nel suo ultimo libro Fitopolis, la città vivente. Perché le città sono ecosistemi strani, artificiali sì, ma presenti ovunque e ovunque simili tra loro, a prescindere da che siano in montagna, in pianura, nel deserto o sul mare. Per questo motivo forzano un’enorme spinta evolutiva sulle specie che le abitano, e il bello è che non chiedono neanche scusa, ma che modi sono?
Il caso più famoso di evoluzione forzata dall’ambiente urbano, tra i primi documentati in letteratura scientifica, è quello della falena delle betulle, la Biston betularia. La si trova in due colori, bianca, più diffusa e detta typica, e nera, come descrisse il genetista inglese Bernard Kettlewell nel 1955. Che purtroppo ne cercava una blu e quindi dovette provare in un altro negozio. Perché la Biston betularia bianca è più diffusa? Perché vive appoggiata sui tronchi chiari delle betulle e si mimetizza, moltiplicandosi. Quelle nere invece sono più esposte ai predatori, che in quanto uccelli sono anche tremendamente razzisti. Tuttavia, notò Kettlewell, nelle città la popolazione di falene nere era molto più numerosa di quella delle bianche, soprattutto nelle aree maggiormente inquinate dallo smog delle centrali a carbone. Lì, infatti, i tronchi di betulla venivano ricoperti da polverine scure e di conseguenza il vantaggio tra le due versioni si ribaltava: la falena bianca diventa obiettivo facile dei volatili, la nera si mimetizza e quindi prolifera. Per questo venne ribattezzata carbonaia, perché il suo successo adattivo era determinata dalla dipendenza dell’uomo dal carbone. E sembra anche che in origine utilizzasse il bacon al posto del guanciale.
Tornando allo scarafaggio, dopo averlo creato nelle nostre città, lo abbiamo diffuso ovunque prima dandogli un passaggio fino al Medio Oriente attorno all’800, poi in Europa con le spedizioni coloniali, infine in tutto il mondo grazie a Pechino Express. Insomma, con le nostre attività, noi umani cambiamo le rotte dell’atmosfera e dell’evoluzione. C’è chi direbbe che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ma forse bisogna prima che li capiamo, questi poteri. Non è facile, oggi che tra eventi estremi e politica polarizzata vige una costante, confusa turbolenza nell’opinione pubblica. Ci evolveremo anche noi in due specie diverse, quelli che negano la crisi climatica e quelli che si preparano ad essa, nel bene e nel male? Magari già è successo. Del resto le differenze tra lo scarafaggio asiatico e quello germanico stanno solo nell’alimentazione e nei comportamenti: mentre lo scarafaggio originario vive all’aperto e vola, quello “urbano” vive in casa, si ciba di quello che trova in dispensa, e se lo porti a fare campeggio si lamenta che internet è lento. Vola, ma solo quando costretto. E comunque sempre low cost. Anche se ora con questa cosa delle turbolenze, ha onestamente un po’ di fifa.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Alla prossima settimana!
Mattia