Tutta questione di metabolismo
Ride verde chi ride ultimo – Le nostre città hanno un problema di dimensioni, ma non quelle che pensi tu (e nemmeno quelle che stai pensando ora)
Dopo le elezioni che ci hanno lasciato tra il verde speranza e l’incazzato nero, a molti di noi sarà venuto da chiedersi: “Scenderei mai in politica, io?” La risposta che mi do è che mi sono appena messo il pigiama, ma se vai tu porta giù l’umido già che ci sei.
Se però io fossi costretto a candidarmi, più che l’europarlamentare mi converrebbe fare il sindaco. I risultati delle europee fanno intendere che la dimensione ideale per il mio elettorato tipo – giovane, ambientalista, spiccato senso dell’umorismo - è proprio quella urbana. Anche se tra consiglieri comunali che sputano sulla Costituzione antifascista e deputati che fanno a botte, probabilmente sarebbe più adeguato fare lo sceriffo. Con il cappello second hand, gli speroni riciclati e il cavallo elettrico. E comunque sempre meglio che portavoce del Vaticano, di questi tempi.
La città sembra anche una dimensione molto più interessante per le persone. Sicuramente più accessibile, altro che quelle faccendacce per cui si scannano a Bruxelles! Qui in città non si decidono i mix energetici, le carbon tax, le politiche agricole, la finanza climatica, qui in città si parla di robe concrete, di troppo cemento e poco verde urbano, di quartieri a misura d’uomo, di parcheggi selvaggi e limiti di velocità, di mezzi pubblici da migliorare, tipo il mio tram che era previsto 10 minuti fa e ancora non passa, diocarbontax! Eppure, questa semplicità è un’illusione. Perché le conseguenze delle grandi decisioni sulla questione ecologica vengono a parcheggiarsi tutte qui, in città. Sulle strisce blu, per giunta.
“Ma tanto sabato è festivo, no?” Illuso.
Il motivo è semplice: una città è molto più estesa di quello che dicono i suoi confini e la colpa è della sua impronta ecologica. Anche quando mette le pattine prima di entrare in casa. Con impronta ecologica di una città si intende tutto lo spazio necessario per procurarsi e gestire le risorse impiegate dalla città stessa per funzionare. Sono chilometri e chilometri quadrati di terreni occupati per coltivare il cibo, per estrarre le materie prime e per produrre l’energia richiesti dai cittadini, dalle scuole, dai negozi e dalle imprese, e poi ancora per smaltire la mole terribile di rifiuti generati. A peggiorare il tutto, quel tavolo da ping pong che abbiamo preso a Pasqua ma che non usiamo mai.
Se consideriamo l’impronta ecologica, una città come Roma passa dai suoi 1.285 km quadrati agli oltre 200.000. Una superficie pari a tutta l’Italia tranne il Nord. L’Emilia Romagna è Nord? Se sì, tutta l’Italia tranne il Nord + l’Emilia Romagna. L’impronta ecologica delle città è enorme a causa del pessimo metabolismo delle stesse. A differenza del cerchio della vita che si verifica in natura (teorizzato dalla professoressa Ivana Spagna della Disney University nel 1994) le città sono fottutamente lineari: importano risorse da tutto il mondo e le trasformano in ciò di cui necessitano i suoi abitanti, producendo continuamente scarti che non tornano a disposizione del pianeta ma vanno dispersi negli spazi urbani. Servirebbe più circolarità per migliorare il metabolismo urbano, ossia diventare più bravi a riciclare, riutilizzare, recuperare; oppure potremmo semplicemente comprare quelle scatole trasparenti dell’IKEA che tengono tutto bene in ordine.
Le città riflettono il pessimo metabolismo di noi esseri umani moderni, e a differenza di quello che ci ripetiamo allo specchio, non è tutta genetica. La Legge di Kleiber ci dice che per tutte le specie viventi il metabolismo è una funzione della massa corporea, in particolare della massa elevata alla potenza di 3/4. Noi umani avremmo un metabolismo di circa 100-120 W, se vivessimo come gli altri animali; ma come specie che si è costruita un sacco di cose attorno, come le case, le macchine e i tamagotchi, abbiamo anche un metabolismo artificiale, detto “metabolsimo sociale”, che è determinato da tutta l’energia che bruciamo per farle funzionare. Questo metabolismo aumenta con l’aumento delle robe di cui siamo circondati. Se l’uomo cacciatore-raccoglitore arrivava a 300W di metabolismo totale (quindi 3 volte quello necessario a muoversi, mangiare, pensare) e l’agricoltore antico a 2000W, un cittadino USA di oggi tocca i 12.000W. “Quella è la palestra,” giustificherebbe mio zio, per poi battersi una mano sulla pancia e bestemmiare. Resta che 12.000W sono tanti. Se applichiamo l’inverso della legge di Kleiber partendo proprio da questi valori di metabolismo, è come se quello stesso cittadino USA moderno consumasse tanto quanto un mammifero di 15 tonnellate. Cosa che Kleiber non mancava mai di far notare alla moglie:
“Margareth, quei pantaloni ti fanno un culone da almeno 3000 W! ohohoh”
Tutto questo cosa ci dice? Che Kleiber era un pessimo marito, sì, ma anche che le città non possono crescere e moltiplicarsi indefinitamente, non a questo modo almeno, perché lo spazio che occupano è tanto e quello disponibile sulla Terra molto limitato.
Soprattutto, ci dice che la dimensione urbana è estremamente connessa a tutto il suo territorio senza che ce ne rendiamo davvero conto, e menomale che martedì venogno a metterci la fibra ultra veloce. Chissà se allora impareremo a capire che città è territorio, quindi è ecosistema. E capiremo anche che le grandi istituzioni, l’UE per esempio, sono quelle a cui dovremmo rivolgere la nostra attenzione al pari dei problemi di quartiere, delle città che abitiamo, alle questioni di tutti i giorni. Quindi che forse, la prossima volta, il voto europeo dovrebbe essere speso con la stessa cura con cui sceglieremmo un sindaco. O uno sceriffo, nel caso voleste supportarmi.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Alla prossima settimana!
Mattia