I conti della serva
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale.
Ciao!👋 Questa settimana ci tocca parlare di soldi 💸
Io di mercato azionario non capisco nulla, tranne ciò che ho imparato dai film e le serie TV.
Per esempio, so che si deve urlare “Vendi tutto, vendi tutto!” oppure “Compra, compra, compra!” sventolando dei foglietti in mano, tipo quelli con il numerino della coda in panetteria. E infatti l’unica volta che ho provato a giocare in borsa, sono uscito da Piazza Affari con diciotto pagnotte di grano duro e tre sfilatini.
L’altra cosa che so è che se compri le azioni di un’azienda, vorresti vedere il loro valore aumentare invece che diminuire. Recentemente però è saltato fuori che è giù che vanno quando l’azienda in questione si ritrova coinvolta in una climate litigation, cioè una di quelle cause legali in cui organizzazioni e cittadini portano in tribunale le grandi compagnie inquinanti (o i propri Stati) per obbligarle ad assumersi responsabilità verso la crisi ecologica. Ne parlavamo qui proprio nella settimana in cui Greenpeace e ReCommon insieme ad alcuni cittadini italiani avevano annunciato la prima azione legale italiana contro ENI, colpevole di peggiorare attivamente la crisi climatica e di violare i diritti umani. Con l’aggravante che l’estate scorsa, quando le era stato chiesto di curare il basilico sul balcone, l’ha fatto seccare.
A dirci che il valore azionario delle aziende scende quando tutti si alzano in piedi per fare entrare il giudice è un nuovo studio del Graham Research Institute on Climate Change and the Environment. Individua una correlazione diretta tra l’annuncio di una causa climatica nei confronti di una grande azienda emittente e la svalutazione delle sue azioni. Le azioni perdono in media lo 0.41% del valore. Arrivano a -1.50% nei casi in cui si raggiunga un verdetto negativo nei confronti dell’azienda, soprattutto nei settori dell’energia, delle utilities e dei materiali che producono più emissioni di gas serra. Una perdita piccolina, direbbe qualcuno. Una perdita tuttavia, direbbe qualcun altro. E improvvisamente l’atmosfera si fa tesa, sulla scialuppa di salvataggio.
Soprattutto perché all’orizzonte, proprio dietro l’iceberg, è spuntato anche un altro, nuovissimo studio che quantifica i soldi che le 21 più grandi aziende del fossile dovrebbero pagare in riparazioni alle vittime della crisi climatica: 5444 miliardi di dollari nel periodo 2025-2050. Cioè 209 miliardi all’anno per ventisei anni - ma se iniziano a pagare subito, c’è in regalo una batteria di pentole in acciaio inox.
Lo studio, co-firmato dal professore Marco Grasso della Bicocca, è il primo a quantificare i danni finanziari dell’attività dell’industria del fossile. Lo fa in modo conservativo, perché si basa solo su ciò che rientra nel conteggio del PIL. Non considera quindi il valore perso tra vite umane, biodiversità, tradizioni e culture uniche, che secondo il perito dell’assicurazione, comunque, erano già rigate prima della fusione dei ghiacciai. Nonostante sia una stima conservativa, avere una somma nero su bianco è utile perché mette la questione ecologica su un piano comprensibile pure ai più capitalistici industriali di destra, da zio Paperone al tizio del Monopoly. Ossia: sei responsabile dell’emissione di gas serra, dunque degli eventi estremi ad essi associati, dunque degli impatti negativi sul PIL, dunque mi crei perdite economiche con incendi, alluvioni, fusioni, innalzamenti e siccità, dunque mi devi ripagare.
“Possa darti Parco della Vittoria, basta?”
Se vi sembra un mutuo enorme, 209 miliardi all’anno per quasi trent’anni, aspettate di vedere gli interessi. Quelli delle aziende del fossile, dico. Che solo nel 2022 sono esplosi come le bestemmie di un gondoliere davanti all’acqua verde fosforescente del Canal Grande. L’anno scorso, complice la crisi climatica e la guerra, le Big del petrolio e del gas hanno fatto profitti record: più di 200 miliardi di dollari per Exxon, Chevron, Shell, BP e TotalEnergies da sole. ENI ne ha fatti 14, cioè 9 in più dell’anno prima. Exxon, che invece ne ha fatti 56, l’ha chiamata per sfotterla un po’. Poi per farsi perdonare l’ha portata a prendersi un gelato e le ha regalato il Mozambico.
Riusciremo mai a ottenere da queste aziende un po’ dei miliardi che ci servono per pagare i danni che stanno causando? Ora che non possiamo più nemmeno scroccare loro l’account Netflix, provarci mi sembra il minimo. Perché proprio come avere Netflix senza condivisione, la crisi climatica ci costa tanto, tantissimo. 4300 miliardi di dollari tantissimo, per essere precisi. Ce lo rivela l’Organizzazione Metereologica Mondiale in un nuovo aggiornamento del rapporto che studia i danni degli eventi climatici, metereologici e idrici estremi. Il rapporto copre un periodo che va dal 1970, anno d’esordio dei Cugini di campagna, e arriva fino al 2021. In questi 52 anni sono stati registrati quasi 12 mila disastri legati a meteo, clima o acqua. Due milioni di vittime, il 90% delle quali nei Paesi in via di sviluppo. Perdite economiche per oltre 4mila e 300 miliardi di dollari, appunto. E questo senza nemmeno contare gli eventi del 2022 e del 2023, né tutte le versioni remix di Anima Mia.
L’insostenibilità dei costi di un mondo climaticamente difficile colpisce anche chi fa la guerra. Nel 2018, l’uragano Florence ha fatto una cosa come 3,6 miliardi di dollari in danni al Camp Lejeune, una base militare dei Marines nella Carolina del Nord; 5 miliardi il suo successore, l’uragano Michael, nella base dell’aviazione Tyndall in Florida. Uno studio di poche settimane fa avverte che il riscaldamento globale potrebbe mettere in pericolo la capacità dell’esercito degli Stati Uniti di addestrare truppe, mantenere l’equipaggiamento e le strutture operative, sia all’estero che in patria. E i soldati non ci stanno:
“Finché c’è da uccidere arabi, asiatici o quella gente lì, contateci super disponibili. Ma sparare contro gli uragani, no. Anche perché faremmo solo un buco nell’acqua.”
Tuttavia no, chiedere all’industria del fossile i soldi per mettere pezze in giro per l’ecosistema non è semplice. Paradossalmente, anche solo impedire loro di continuare a fare quello che vogliono ci costa caro. Questo perché esistono i cosiddetti investor-state dispute settlement, cioè quei meccanismi per cui investitori privati e Stati si (di)sputano in faccia perché i secondi cancellano o bloccano progetti in cui i primi avevano già iniziato a investire e per i quali non percepiranno ritorni. E dunque chiedono un risarcimento. Molti governi hanno le mani legate su diversi progetti di sviluppo del fossile. In Europa e in Asia questo si deve soprattutto all’energy charter treaty (ECT) che è già costato 800 milioni di euro alla Spagna. Tocca anche noi, visto che a novembre scorso l’inglese Rockhopper Explorations ha vinto la causa in cui chiedeva un risarcimento all’Italia perché nel 2016 si è vista bloccare le trivelle nell’Adriatico. L’Italia dovrà pagarle 190 milioni più interessi. In un messaggino su WhatsApp alla multinazionale, il nostro Paese avrebbe intanto chiesto se ci fosse la possibilità di uno sconticino, magari pagando in contanti e chiudendo un occhio sulla fattura.
Lo ripeto, io di borsa capisco meno di zero. Chiedetelo alla mia ragazza quando mi mostra gli annunci su Vinted. Però dopo tutto questo grande discorso è chiaro che saranno proprio gli azionisti (insieme agli avvocati) i protagonisti della nuova fase dell’azione climatica. Sono, se volete, l’alleato che ci manca per spezzare la morsa dei profitti economici incondizionati sulla vivibilità del pianeta. È per questo che storie come quella di Mark van Baal e la sua iniziativa Follow This mi entusiasmano. Si tratta di un gruppo di circa 9500 azionisti di aziende dell’Oil&Gas che esercitano il proprio potere per chiedere che vengano stabiliti obiettivi di riduzione delle emissioni seri e lungimiranti, come quelli di chi a febbraio ha già prenotato le vacanze estive.
Alle assemblee degli shareholder, i sostenitori di Follow This sono ancora una minoranza e le loro istanze non riescono a passare. Non ci sono riuscite all’assemblea annuale di Shell, tenutasi a Londra tra le incursioni prolungate di diversi attivisti climatici – come già era successo a quella di BP e di Total. Non ci sono riusciti nei meeting di Exxon e Chevron, che proprio per evitare simili proteste sono stati organizzati da remoto. E quando su Zoom van Baal ha provato a prendere parola, il consiglio di amministrazione delle due aziende si è inventato di avere scarsa connessione: quello di Chevron ha finto di freezarsi rimanendo immobile e cercando il più possibile di non sbattere le palpebre, quello di Exxon ha spento la webcam e ha detto, esasperato: “Chi è che ha dato il link a ‘sto stronzo?!” dimenticandosi però del microfono acceso. Ma nonostante tutto, gli azionisti di Follow This insistono. Van Baal insiste. Con pazienza, sanno che prima o poi verrà il loro turno. Perché per certe cose basta avere i numeri giusti, proprio come in panetteria.
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
📰 Breaking le news
"Abbiamo superato i limiti: la Terra non è più un luogo sicuro per gli esseri umani" (Repubblica). Immediata la telefonata ansiosa di mia nonna per dirmi di non girarci da solo la sera.
La compagnia aerea americana Delta trascinata in tribunale perché si dichiara “carbon neutral” pur basandosi solo su compensazioni da crediti di carbonio inefficaci (The Guardian). Delta mente riguardo la neutralità climatica ovunque: negli spot pubblicitari, sugli annunci Linkedin e perfino sui tovagliolini in dotazione ai passeggeri. “Basta prenderci per il culo” fanno sapere i querelanti. E le hostess si affrettano a nascondere i nuovi rotoli di carta igienica stampata.
Gli insetti si stanno spostando a causa del riscaldamento globale (Icona Clima). Si muovono sempre più verso Nord o verso Sud e anche in altitudine. In ritardo le mosche, che non hanno ancora capito come uscire dalla finestra.
Scoperte più di 5000 nuove specie nel fondo dell'Oceano Pacifico in un’area ricca di minerali (Kodami | The Guardian per le foto). Si teme che possano già essere in pericolo a causa dell’attività delle aziende estrattive e degli allenatori di Pokémon.
Le startup che trasformano in risorsa gli alimenti sprecati (Italian.Tech). Un esempio: pomodori marci in frigo? L’italiana Fisky vende i biglietti degli spettacoli di Pio&Amedeo.
8 italiani su 10 respirano aria malsana a causa dell'inquinamento (RaiNews). Gli altri 2 rientrano lunedì dalle ferie.
Ma ai governatori delle regioni dell’area padana non piacciono le nuove direttive UE pensate per migliorare l’aria che respiriamo (La Svolta). Davanti ai provvedimenti per limitare l’inquinamento da industrie e mobilità, Attilio Fontana tuona: “Con tutte quelle persone sane, poi come li riempiamo gli ospedali?”
Sudata fredda:
Rinnovabili, ultima chiamata: per l'Italia è ora di accelerare (Green&Blue). Ma il numero non è attualmente raggiungibile.
“L’Italia nel 2023 è stata il Paese europeo più colpito da eventi estremi ma è allo stesso tempo quello che meno fa sentire la sua voce sull’unico piano che servirebbe a mitigarli” (Greenkiesta). Pichetto Fratin risentito: “Con ben tre squadre nelle finali di coppa europee, la nostra parte già l’abbiamo fatta.”
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Mattia