Lezioni di Storia
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale
Ciao! 👋 Rieccoci nel 2024. Avete ricaricato le batterie? O siete tra quelli che sì, e l’estrazione delle terre rare allora!?
Rientro da una delle mie più classiche pause, che sono l’equivalente dell’uomo che vorrei essere: sfrontate, improvvise, gonfie di ispirazione. Come Jeremy Allen White nella pubblicità di Calvin Klein, costretto a camminare in mutande sui tetti di New York per tentare di rubare il primato di hottest al 2023, l’anno più caldo degli ultimi 100.000 anni. Anche se 100.000 anni fa nessuno si chiedeva se fosse più o meno caldo di prima, o di dopo se è per questo. Nessuno si curava di sé come membro di un’intera specie, al massimo ci si scambiava domande sul cielo e le stelle, sul fuoco e i grandi alberi, e occasionalmente qualche gossip su chi avesse ucciso cosa negli ultimi cinque giorni. Gli uomini erano immersi nell’immediato, nel presente, nel sopravvivere, tra cibo da procurarsi, istinti riproduttivi da soddisfare e ripari sicuri da scovare. Esattamente come Jeremy Allen White nello spot, ma più pelosi.
Centomila anni sono tanti. Rende bene l’idea il modo in cui ha commentato i dati Carlo Buontempo, il direttore di Copernicus (l’occhio sulla Terra dell’Agenzia Spaziale Europea): “L’ultima volta che le temperature medie erano così alte non esistevano città, libri, agricoltura, animali addomesticati sul pianeta.” Loretta Goggi aveva già iniziato con le imitazioni in Rai, ma era ben lontana da Maledetta Primavera. Da quel momento, la nostra idea più familiare di umanità si è costruita su temperature stabili, su un clima stabile. E ora invece siamo sbilanciati, come quel traghetto a Formia in bilico tra onde di otto metri, tutti colpevoli dello stesso problema sistemico, alcuni più, altri meno, certi che io guarda sono appena arrivato ed era già tutto così… Centomila anni dopo siamo tornati a centomila anni fa, ma tutto nell’arco di meno di due secoli. Figuratevi la fatica di chi come me sta ancora cercando di capire i salti temporali di Interstellar.
Comunque, fa caldo come centomila anni fa e incrociamo le dita che più di così non si vada. Che se no poi si torna a quando c’era ancora in giro l’Homo Erectus con quei suoi continui doppi sensi, che con la sensibilità di oggi risulterebbero francamente irricevibili. No no, centomila e sto. Alla fine è una cosa molto umana quella di negoziare compromessi con se stessi, tracciare limiti arbitrari e dire che finché stiamo da questo lato siamo a posto, da quello in avanti è fallimento. Tipo io che per Capodanno mi ero imposto di non superare una certa soglia di zuccheri, e alla venticinquesima Morositas volevo farmi esplodere un fuoco d’artificio in mano come seppuku. O tipo il famoso limite dei 2°C di aumento delle temperature medie globali da non superare, meglio ancora se 1.5°C, stabiliti ormai 9 anni fa in quella storica COP di Parigi e il suo Accordo (lo studieremo mai a scuola? Io, nel dubbio, ho preso appunti.) Limiti tracciati su cifre tonde per comodità, per ispirazione: non sono infatti dei numeri “frontiera”, che se li superiamo allora scatta il disastro ecologico. 1.49°C è eventi estremi ovunque, più di quelli che già stiamo vivendo ora che stiamo a +1.3 °C. Ma il punto è che 1.51°C sarebbe peggio. 2°C sarebbe molto peggio. 2.7°C, lo scenario verso cui stiamo dirigendici attualmente, peggissimo. Insomma, quando si tratta di azione climatica, un primo passo mentale è evitare la tecnica del salumiere:
“Signora, sono due e sette, che faccio, lascio?”
No, sia preciso, mi faccia il piacere. 1.5°C. Se riesce meno, meglio. Se non riesce, 1.51°C. Poi 1.52, 1.53, e così via.
2024. Siamo nell’anno delle elezioni in giro per il mondo, di El Niño che quest’estate verrà a farci più male delle hit reggaeton. Ci aspettano da prendere decisioni che condizioneranno il nostro approccio ad un problema globale non nel solo venti-ventiquattro, ma per i decenni a venire, secoli anzi. Anthony Leiserowitz, il direttore dello Yale Program on Climate Change Communication, ha detto che contrastare l’emergenza climatica è fare la stessa cosa di quando nel passato hanno costruito le grandi cattedrali. La costruzione di una cattedrale impiegava secoli, e questo ha un’implicazione non banale: chi poneva la prima pietra non avrebbe mai visto l’ultima. Né chi la commissionava, né chi la pensava, né chi la finanziava. Era uno sforzo di proiezione al futuro, a volte per dare conto a un Dio, a volte per orgoglio patriottico, a volte per sfida antropocentrica. Cosa direbbe oggi il progettista di Notre-Dame, potesse finalmente vedere il suo capolavoro realizzato?
“Noi avevamo fatto l’assicurazione contro gli incendi, vero o no Jean-Baptiste?”
Dio, patria e antropocentrismo sono ormai nella dispensa di alcune parti politiche che difficilmente costruirebbero una cattedrale per il clima. Magari una moschea, ma credendo di fare un dispetto. Chi o cosa potrebbe guidarci allora in un progetto ecologico intergenerazionale? I super ricchi? Siamo freschi di Davos, la località sciistica svizzera dove i leader del mondo (e con loro i miliardari) si ritrovano ogni anno per il World Economic Forum, per scambiare spunti sulle grandi sfide del pianeta e rivivere l’atmosfera dei cinepanettoni originali. Davos, come location, in linea di massima è una bella idea, lo facevano notare l’anno scorso quelli di Bloomberg: “Una Davos senza neve” sempre più probabile visto la diminuzione vertiginosa della copertura sulle Alpi “dice all’élite mondiale tutto ciò che deve sapere” sulle priorità del mondo. E effettivamente quest’anno di clima si è parlato, nelle cinque giornate di summit.
Ma si crea sempre una spaccatura intellettuale profonda quando si cerca di stabilire se i miliardari, con il loro consumo di risorse ridicolmente gigante rispetto al reddito medio, con le loro pratiche di lobby per difendere i propri interessi radicati nel fossile e nel consumismo, con i loro stili di vita senza contatto con la quotidianità del 99% di noi altri, possano essere campioni onesti della risoluzione della crisi climatica. Secondo un report della nonprofit ClimateWorks i ricchi e le loro fondazioni hanno donato nel 2022 tra gli 8 e i 13 miliardi per la mitigazione della crisi climatica. Tanto? Be’, se li mettiamo in prospettiva scopriamo che corrispondono appena al 2% dell’intera filantropia dello stesso anno. Quanto è coerente un miliardario che svolazza con il suo jet privato verso un resort svizzero per impegnarsi a piantare un numero roboante di alberi e poi tornare ad aggravare la crisi ecologica con tutto quello che fa?
“Però sul telefono ho un selfie con Greta Thunberg.”
Le disuguaglianze economiche sono una roba da discutere quando parliamo di crisi climatica, perché senza esplorarle si fa un ragionamento a metà. Vi lascio dunque un quiz e se partecipate in tanti dedicheremo un prossimo appuntamento di Ride verde chi ride ultimo a questo tema:
Ne approfitto per incoraggiarvi a scrivermi, in questa ripresa di anno, con qualsiasi commento, insulto, suggerimento, proposta, insulto, richiesta su ciò che vorrebbe essere questa newsletter. Vorrei che, oltre a essere una valvola di sfogo emotivo (così mi hanno suggerito di definirla i miei avvocati) fosse anche e soprattutto uno strumento utile per voi tutt*. Perciò, fatevi sotto!
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Insomma, ci vediamo presto!
Mattia