Una COP al Sole (parte 2)
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale, verso uno dei due appuntamenti più importanti dell'anno
Dietro al lancio di cibo sulle opere d’arte non c’è nient’altro che Joe Bastianich.
Due settimane fa parlavamo del percorso irto di ostacoli con cui COP27 si avvicina. COP27, per chi si fosse appena sintonizzato, è la grande conferenza dei Paesi del mondo che si ritrovano a Sharm el-Sheikh a discutere di crisi climatica, ma anche di gossip climatico (“Hai sentito che il Giappone ha copiato i suoi piani di adattamento da internet?”), di sport climatico (“Mi vuoi dire che sul Nord Stream non c’è stata mano? Ma l’hai visto il VAR?”) e di moda climatica (“Per la stagione autunno-inverno di quest’anno tornerà di moda il carbone”).
Alcuni di quegli ostacoli sono stati mezzo risolti. Liz Truss, la premier più veloce del West, è stata cacciata da Downing Street ed è dovuta tornare al suo paesino, dove tutti hanno la sua stessa smania di “crescere, crescere, crescere!” e coi vestiti è un casino, non fai in tempo a metterti una maglietta che già non riesci quasi a sfilartela. Altro che fast fashion. Al suo posto troviamo Rishi Sunak, il cui approccio al tema ambientale e climatico ha luci e ombre. Alcuni think thank lo considerano più verde della Truss, ma rispetto a lei anche il rosso e il blu lo sono. Come la sua predecessora, non parteciperà personalmente alla COP e resta il dubbio su chi ci manderà in rappresentanza del Regno Unito. Magari Ed Sheeran.
Cosa ci aspettiamo da COP27? Innanzitutto, che le cose buone di COP26 vengano trattate come una base da cui si può solo andare avanti. Come i checkpoint dei videogiochi di una volta, che se poi morivi non dovevi ripartire da capo. Il ritorno degli USA tra i protagonisti della scena climatica, forti della più grande legge a favore del clima mai approvata, è sicuramente tra queste. Il tanto discusso Inflation Reduction Act è stato accolto in casa come un cane preso al canile. Non è il cucciolo di labrador che avremmo voluto, ma è comunque una creaturina a cui voler bene.
Altri buoni risultati erano stati gli accordi di collaborazione internazionale sul taglio delle emissioni di metano, sullo stop alla deforestazione, sull’impegno di neutralità climatica delle città, sul coinvolgimento finanziario dei grandi capitali privati. Tutte robe da portarsi anche a Sharm, nonostante la guerra, le provocazioni di confine e il limite di 100 mL per i liquidi in cabina. A proposito di liquidi: la speranza è che dalla Scozia venga portata anche qualche cassa di Irn-Bru, la bevanda su cui tutti, dai capi di stato ai diplomatici, dai giornalisti agli attivisti, si erano trovati d’accordo a Glasgow. Del resto, in Egitto che c’hanno da bere? Il karkadè. Per forza poi i negoziati vanno male.
La mitigazione, storicamente, è stata IL punto delle COP e dovrebbe esserlo anche per la 27esima. Dobbiamo tenere giù l’aumento della temperatura media globale rispetto all’inizio della Rivoluzione Industriale. “Giù” significa sotto i due gradi, meglio se sotto il grado e mezzo. Attualmente, i governi mondiali sono vittima della Sindrome del Salumiere, per cui se rispettassimo tutti gli impegni climatici annunciati arriveremmo comunque a +2,4 °C. “Che faccio, lascio?”
Se abbiamo detto uno e cinque, che siano uno e cinque, verrebbe da dire. Altrimenti so già come finisce: per non buttare ciò che avanza, dobbiamo infilarlo nel gattò di patate della domenica. E da quando abbiamo i figli attivisti è un attimo che ce lo ritroviamo spiaccicato sui quadri del salotto.
A COP26 si era parlato di metano e dell’ideuzza di ridurne le emissioni di almeno il 30% rispetto ai livelli del 2020. Un proposito che aveva entusiasmato gli animi di tutti, tranne forse quello delle mucche che appena sentono parlare di quel gas maledicono il proprio metabolismo. Si era citato il carbone, esplicitando il suo nome per la prima volta in quasi trent’anni di negoziati sul clima, e finalmente si potevano abbandonare appellativi quali “Il Combustibile Oscuro” o “Tu-sai-cosa”. Si era deciso di accelerare gli sforzi per diminuirne l’uso unabated, cioè quell’uso che non è accompagnato da soluzioni per assorbire la CO2 prodotta, tipo le tecnologie di cattura e stoccaggio, o il Dyson appeso al muro del bagno.
Purtroppo, dall’UNEP ci hanno appena fatto sapere che limitare il riscaldamento globale a +1,5°C non è più un percorso credibile. È che l’essere umano avrebbe anche il potenziale per fare bene, ma non si applica. Per COP27 ci si attendevano NDC* più ambiziosi da parte di più di cento Stati, e solo una venticinquina hanno presentato un aggiornamento dei propri. E nemmeno quelli che emettono di più, tant’è che questi nuovi impegni coprono appena il 18% di tutte le emissioni a livello globale. Il lato positivo è che tra questi spunta l’Australia, da sempre un negazionista DOP nonché casa della natura più letale al mondo (a Sidney perfino i koala provano a truffarti col gioco delle tre carte).
*Gli NDC non sono una cover band degli AC/DC che gira per i circolini del Veneto, bensì sono i Nationally Determined Contributions – e sinceramente mi dispiace voi non possiate apprezzare la mia pronuncia – ossia le promesse con cui ogni Paese dice di quanto vorrà ridurre le proprie emissioni.
Ogni decimo di grado in meno conta, dunque concentriamoci sul salvabile. COP26 è stato il momento delle promesse, a volte tenere, a volte ammiccanti. COP27 è invece considerato il tempo dei fatti. È tipo la sera del terzo appuntamento, l’aspettativa implicita è che si quagli. Tutto quello che abbiamo promesso al mondo, dalla mitigazione alla finanza, come lo implementiamo?
“Non correre, cowboy, vediamo prima come va la cena.”
La questione più importante su cui fare concretezza a Sharm el-Sheikh, quella di cui non si potrebbe fare a meno se dovessimo sceglierne una e una sola, sono i soldi. Solo i soldi. Clap clap.
Perché i soldi? Perché la crisi climatica costa, sia che la si voglia arrestare, sia che la si voglia gestire. Chi li mette questi soldi? La morale direbbe che chi è colpevole della crisi climatica, paghi. Nord America e Europa sono responsabili del 62% della CO2 finora emessa dagli umani, l’Africa solo il 3%. Com’è che insistiamo per fare alla romana?
Non siamo di parola. Durante COP15 a Copenaghen nel 2009 si era deciso di creare un fondo da 100 miliardi di dollari che i Paesi ricchi avrebbero dovuto destinare ogni anno, fino al 2020, ai Paesi in via di sviluppo, per poi aumentare nei successivi cinque anni. Soldi da usare per uno sviluppo a basse emissioni e alta resilienza agli eventi estremi del clima che cambia. Un accordo che era stato formalizzato in Messico l’anno dopo e riproposto nel 2015 a Parigi, durante la COP del famoso Accordo. Eppure, al 2020 si era raggiunta la cifra di poco più che 83 miliardi. Che direte voi, non sono mica noccioline. Ma anche le noccioline devono essere più di una manciata se vuoi sfamare un elefante. E pensare che l’idea stessa del cento era di per sé simbolica, un primo traguardo su cui impostare una relazione di fiducia tra Paesi ricchi, responsabili della crisi climatica, e Paesi vulnerabili, vittime della stessa. Un po’ come quando la nonna ti allunga una busta al compleanno e fa: “È giusto un pensierino” e tu le sorridi imbarazzato di rimando. Se però poi ci trovi dentro venti miseri euro, altro che sorrisi: a tavola la punisci facendole lo sgarro di un solo bis.
Se conta il pensiero, noi siamo stati distratti, evidentemente.
Siamo delle potenze sfruttatrici incapaci di sfruttare le occasioni che la Storia ci concede per redimerci. Un commento pubblicato su Lancet da diversi autori africani ci ricorda come tirare fuori questi soldi non sia solo questione di cosa buona e giusta, ma anche di auto-protezione. Viviamo in un mondo interconnesso come la trama di Lost. Se lasciamo che i Paesi più vulnerabili cedano agli affondi della crisi climatica, dove crediamo si ripercuoteranno le migrazioni, le epidemie, le instabilità politiche, i conflitti, le vuvuzelas? Sarà meglio per tutti che prima di arrivare a Sharm, i delegati di Europa e Nord America passino a fare un bancomat. Non solo per finanziare i percorsi di mitigazione e adattamento alla crisi climatica dei Paesi più colpiti e meno colpevoli, ma anche per affrontare quel rognosissimo tema del risarcimento per le perdite e i danni già subiti. Rognoso perché basta sussurrare “Loss & Damage” che subito a tutti i Paesi occidentali prende un mal di pancia sospetto, e come ti giri non c’è più nemmeno un caucasico nella stanza. Ma la pazienza di chi soffre è al limite. Voci dicono che quest’anno, a COP27, per andare in bagno bisognerà chiedere la chiave al barista. Il quale però viene da un’isola nel Pacifico quasi totalmente sommersa dall’innalzamento dei mari. Il messaggio è quindi super chiaro: senza una giusta finanza climatica, si prospetta una nuova Gubbio.
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
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Sudata fredda:
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🔮 L’Oroscopo Climatico
Questa è la settimana climatica dello Scorpione.
Voi dello scorpione state vivendo una nuova primavera. I vostri flirt sono immersi in un’atmosfera romantica come non se ne vedeva dal 1800. Sul lavoro il tanto atteso salto di carriera continua a disturbarvi, come punture di zanzara fuori stagione. Non demordete perché la fortuna sta girando: avete davanti un periodo straordinariamente caldo.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Mattia