15 minuti di follia (parte 3)
Ride verde chi ride ultimo, la rassegna di riflessioni, notizie e pensieri comici sulla crisi climatica e ambientale, e poi giuro la smetto.
Ciao👋 Questa settimana chiudiamo la trilogia della folle para sulle città da 15 minuti, di cui potete recuperare parte1 e parte2. Scoperti i fatti e i volti, ci restano da capire i perché. Iniziamo!
Per chi ha interesse ad annacquare il dibattito pubblico sul cambiamento climatico, il complottismo dilagante è una maniglia comoda. Come quelle nere satinate degli ambulatori medici, con sopra scritto “tirare”. E infatti il complottista lo riconosci perché è quello che, non fidandosi, spinge. Arrabbiato e sicuro che i poteri forti, o al massimo la portineria, non vogliano farlo entrare. Lui che avrebbe diritto di entrare, lui che non si fa infinocchiare e dice a tutti di svegliarsi, lui che si pensa libero. Così resta alla porta, a sbuffare via sudore e razionalità. Con dietro una vecchina che continua a chiedergli chi sia l’ultimo in coda.
Torniamo un’ultima volta a Oxford, alla manifestazione di chi crede che la proposta di istituire quartieri pedonali sia un modo per segregarci dentro terrificanti lockdown climatici. Dietro alla protesta, come abbiamo visto la settimana passata, c’è l’azienda Not Our Future di David Fleming. È proprio lui che ci racconta però di averla fondata anni fa, ben prima che la contea iniziasse anche solo a ipotizzare la decisione. Era il 2019 e l’allora premier Theresa May aveva annunciato l’impegno del Regno Unito di raggiungere il net-zero entro il 2050. Ed eccolo lì, il vero nemico di Fleming: non le città a prova di pedone, non le ZTL, ma l’ambizione del suo Paese alla neutralità climatica. Questo è il motivo per cui i messaggi promossi dal sito e dai volantini di Not Our Future nelle settimane prima e dopo la manifestazione sono intrisi delle solite bufale negazioniste sul cambiamento climatico. Del tipo che stiamo vivendo un’era glaciale, che il clima è sempre cambiato, che i climatologi manipolano i dati continuamente e perciò finiscono per portare tutti gli occhiali. Fleming, che a detta sua ha “studiato le scienze ambientali”, certe cose le sa bene! Tranne quando la prof interroga, stranamente. Uno dei suoi cavalli di battaglia è che stiamo assistendo semplicemente a “cicli naturali” del clima. “È per questo,” spiega con sicurezza, “che la Terra è così irascibile negli ultimi giorni.”
Fleming è davvero convinto delle panzane non-scientifiche che propone o sa di non sapere? Secondo me ripete un copione rodato. Secondo Socrate, invece, è solo uno stronzo. Ma non è un caso che sul suo Linkedin scopriamo una carriera nel marketing delle gare automobilistiche, industria che quando si inizia a parlare di emissioni e inquinamento è la prima che si offre di andare a cercare un parcheggio.
“Voi continuate pure, eh”
“Guarda che lì ho visto un post--”
ma lei attacca a suonare il clacson e fa segno che non riesce a sentirti.
No, le bugie di Not Our Future non sono casualmente simili a quelle che circolano da sempre. Il complottismo applicato alle questioni ambientali, lo ripeto, è una maniglia comoda per chi ha interesse a ritardare l’azione di riprogettazione in chiave sostenibile del nostro mondo. Perché in un mondo meno inquinato, meno caldo, meno ingiusto, meno fossile, le posizioni di potere rischiano di cambiare. E la confusione creata dai complotti, per quanto ridicola, ci impedisce di agire per cambiarle. Eccolo il succo della questione. Anche se lo avevo ordinato alla pera.
Secondo Robert Gifford, studioso dell’interfaccia tra la psicologia sociale e individuale con l’ambiente alla Victoria University, ci sono “sette draghi dell’inazione climatica”, ossia sette barriere psicologiche che ci impediscono di agire contro i cambiamenti climatici come dovremmo. Sono la cognizione limitata del problema, il costo legato a dovere adottare modelli di vita nuovi, il fatto che siamo influenzati dalle azioni degli altri, la discrezionalità con cui scegliamo esperti o autorità da ascoltare, e le ideologie attraverso cui vediamo il mondo.
Quegli ultimi due draghi, le visioni ideologiche e il decidere in modo totalmente arbitrario a quali esperti, o presunti tali, dare la nostra fiducia, sono i pulsanti su cui il complottismo come quello attorno alle città dei 15 minuti agisce. Del resto, come spiega Dan M.Kahan, docente della Yale Law School, “i valori vengono prima dei fatti” e dunque ognuno interpreta le cose sulla base della storia che vorrebbe leggere. Delle informazioni fattuali, degli esperti e giornalisti, delle opinioni fa prima un unico cesto, come fossero ciliegie, e poi una alla volta decide cosa farsene: accettarle, deriderle, stravolgerle. Tutto per confermare quella visione del mondo che già ha.
“Sì però poi mi paghi pure quelle che sta buttando a terra, capo.”
La crisi climatica è un fenomeno immutabile, per quanto uno ci speri, preghi, ignori, decori. Ma se e come decidiamo di affrontarla, ecco, quella è una questione di visione del mondo, di sistema di valori, di ideologia appunto. Lo stesso motivo per cui c’è chi dice che la prima stagione di LOL sia stata meglio della seconda, anche se di questi cani infedeli preferirei non parlare ora. Chi non vuole perdere i propri privilegi (economici, ma anche politici e sociali) prova sempre più frequentemente a trascinare il discorso della transizione ecologica su un campo di battaglia culturale, e costruirci qui una guerra, nella quale le teorie complottiste sono un’arma chimica che purtroppo nessuno sa bene come bandire. Chi viene esposto alla loro azione rischia di rimanere infettato da una tendenza anti-scientifica, da poca preoccupazione ambientale, da scetticismo, dalla totale assenza di appoggio politico alle iniziative dall’alto, oltre che da un’acuta incapacità di decidere quando va l’accento e quando l’apostrofo nei commenti di Instagram.
Come tutte le guerre, anche quelle culturali ripagano i suoi signori.
E noi conosciamo bene i signori delle guerre culturali del clima. Tutti i nomi che abbiamo visto parlando dei lockdown climatici in questi numeri di Ride verde chi ride ultimo, per esempio, possiamo ricollegarli alla famiglia Koch.
Per chi non la conoscesse, la famiglia Koch sta al cambiamento climatico come Riccardo Polizzy Carbonelli sta a Un Posto al Sole. Per farla semplice, è il negazionismo. La famiglia Koch, dico, non Polizzy Carbonelli.
Si stima che i Koch abbiano mosso più di 100 milioni di dollari tra il ‘97 e oggi per finanziare svariate azioni di lobby dell’industria dell’Oil&Gas negli USA e nel mondo. La famiglia Koch deve il suo enorme patrimonio all’attività di raffineria del petrolio della Koch Industry, una delle più grandi imprese private americane. Sono loro (insieme alle altre solite Exxon, Shell e amic* var*) che hanno fondato o finanziano i più grandi gruppi di negazionismo americani, dal già citato Heartland Institute al Cato Institute. Tramite questi “think tank” ottengono che giornalisti, politici e influencer diffondano la loro disinformazione. I loro soldi finiscono nelle tasche di scienziati e pseudo-scienziati che hanno dimenticato la morale nell’altro camice. Sono i soldi dei Koch che nel 2007 portarono alla pubblicazione di una lettera (senza passare per la peer review tipica delle pubblicazioni scientifiche) in cui si affermava che gli orsi polari se la passano alla grande. Sono i soldi dei Koch che fomentano il tormentone dei “modelli climatici sono tutti esagggerati” che fa sempre un gran ridere alle feste di paese. E sono sempre i Koch che stanno cercando di convincere la Perugina ad inserire nei Baci il messaggio: “Nulla è più romantico che farsi una sana sgroppata alla pompa di benzina con la persona che ami.”
I Koch donano soldi al Legatum Institute. Il Legatum Institute è di proprietà del gruppo che possiede il canale TV su cui si espongono quotidianamente quei personaggi co-firmatari di Not Our Future di cui parlavamo nel precedente episodio. Se ricordate, poi, in quell’episodio avevamo anche incontrato Jordan Peterson, la star dei social, guru del pensiero della destra becera. Forte della grande attenzione che ha su di sé, lo psicologo canadese spalma menzogne climatiche a destra e a manca dai suoi profili così come in tv, per radio, perfino nel podcast più seguito al mondo. E come fonti cita volti storici della disinformazione scientifica finanziati dai Koch: Richard Lindzen (affiliato sia al Cato Institute sia all’Heartland), Alex Epstein (Cato e Ayn Rand, altro gruppo finanziato dai Koch), e l’ormai deceduto Fred Singer, veterano del negazionismo americano, che ha preso per anni cinque mila dollari al mese dall’Heartland come paghetta. E pensare che a casa manco sparecchiava.
Vedete la scia di soldi sporchi come il petrolio che ci porta dai cartelli anti-ZTL di uno sparuto gruppetto di manifestanti ai più grandi nomi dell’industria fossile? “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova” diceva Agatha Christie. Prima di affiliarsi anche lei al Cato Institute e iniziare a mettere come assassino fisso di tutti i suoi gialli il climatologo.
Siamo giunti alla fine di questo viaggio nella teoria del complotto attorno alla città dei 15 minuti. Non si esaurirà in Inghilterra e presto o tardi, nel modo tutto italiano di scimmiottare i trend anglosassoni, arriverà anche da noi. In parte già si è visto quando Milano ha annunciato l’intenzione di imporre il limite dei 30 km/h in quasi tutta la città: diversi personaggi di dubbia morale e di palesi interessi economici sono zompati alla gola della giunta, colpevole di volersi avvicinare a Parigi, Barcellona e le altre grandi città che tentano una transizione sostenibile. E già assistiamo a costanti tentativi di trasformare in guerre culturali le più svariate iniziative green. Troviamo infatti un filo rosso che collega questa storia della città dei 15 minuti a quella dei fornelli a gas, e se continuiamo a dipanarlo arriviamo fino alle dure reazioni della politica alle azioni di protesta climatica, allo scherno che dimostra alle richieste dei movimenti ambientalisti, a “le farine di insetti mangiatevelo voi”, a “e dei mostruosi impatti ambientali della auto elettriche e dei pannelli solari che mi dite!?!?”
Prima di navigare in questa storia ho sempre pensato che chi si beve certe teorie complottiste lo faccia per paura del cambiamento. Per quanto, come si fa ad avere paura di quartieri più verdi e amichevoli? Non me lo immagino di grande successo un film horror in cui sette giorni dopo che sei andato a lavoro in bici, un urbanista cadaverico ti sbuca fuori dal televisore e ti pianta un ginkgo biloba nel vialetto di casa. Ora capisco che sì, magari la paura c’è, magari una qualche crisi identitaria anche, ma l’arroccamento dietro il proprio schema valoriale è promosso da menti fredde e senza scrupoli.
Vi lascio con un appello, allora. Ricordate quella barzelletta di Hitler e dei ciclisti con cui abbiamo aperto la prima parte di questa trilogia? Se avete amici che ripetono quei dubbi del tipo “l’Europa ambientalista vuole imporci la sua dittatura” o “gli ambientalisti ideologici odiano il progresso”, ragionate con loro. Sviluppate il loro ragionamento fino a farli sbattere contro i nodi della loro stessa illogicità. Una volta che ci siete, chiedete loro se pensano possano esserci doppi fini in chi promuove le teorie che ripetono a pappagallo. Insomma, instillate il dubbio nel loro dubbio. A nessuno piace essere preso in giro, del resto. Soprattutto da ometti con ridicoli baffi sotto il naso.
FUN FACT: la giornalista Jane Mayer racconta nel suo Dark Money di come il capostipite dell’impero dei Koch facesse grassi affari sia con Stalin che con Hitler. Evidentemente l’idea della dittatura ecologista è sempre stata nel retaggio di famiglia.
Ce l’abbiamo fatta! Questo era il terzo e ultimo capitolo di una storia che per interesse, lunghezza e importanza ho deciso di esplorare a lungo. Se sei arrivat* nel mentre, recupera i precedenti capitoli (sono disponibili su Substack). Se sei con me da tanto, allora ti chiedo: come ti è sembrato questo format a episodi? Rispondi al sondaggio o scrivimi direttamente 😊
Via con la rassegna di notizie lievemente riadattate.
📰 Breaking le news
Gli insetti verranno venduti su scaffali separati (Rai News). Tutto fuorché tenere pulita la dispensa, eh?
A Milano mancano gli spazi per gli alberi (Open). Girano per mezz’ora sui Navigli in cerca di un buco, poi chiamano gli amici e dicono che sarà per il prossimo aperitivo.
A Collegno la casa al 100% elettrica, geotermica e sostenibile (Repubblica). L’unico problema? L’inquilina ottantenne che sta sempre affacciata sul balcone. Ed è nudista.
Scacco matto alle rinnovabili 2023 da parte della burocrazia italiana (Legambiente). Confuso il ministro Pichetto Fratin: “Non stavamo giocando a dama?”
Dobbiamo imparare a convivere con i castori (LaSvolta). Se solo la smettessero di allagare il bagno.
Miliardi di persone senza acqua e servizi igienici, è ora di agire (Icona Clima). O almeno di liberare il bagno, guarda che non ci sei solo tu.
UE, arrivano le nuove regole per le etichette 'eco' e 'bio' (Ansa2030). Saranno finalmente in carta riciclabile.
Oltre lo smartphone, che fine fanno davvero i rifiuti tecnologici pericolosi (Domani). La vera storia delle gang di prese SCART che fanno tremare la periferia.
Sudata fredda:
Cambiamenti climatici, COP28: intesa Italia-Emirati per garantire successo (LaStampa). A più di nove mesi di distanza, c’è già la certezza che sarà un disastro.
🇺🇳 È uscito il Report di Sintesi dell’IPCC 🌍
Come forse avrete sentito, o forse no - con i media è sempre una scommessa. È un riassuntone di tutto quello cha sapevamo finora sulla crisi climatical. Nulla di nuovo, tutto di importante. Trovate diversi approfondimenti ben fatti qui, quo e qua.
Questo era Ride verde chi ride ultimo!
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Mattia